Menu

Petrolio in cambio di armi

La vicina frontiera con l’Egitto è un colabrodo e l’esecutivo ribelle teme che «spie» del governo di Tripoli possano entrare e «sabotare» quella che dovrebbe diventare la principale fonte dei dollari necessari per comprare le armi.

Invece ci accolgono a braccia aperte al quartier generale della Arabian Gulf Oil Company (Agoco) a Benghazi, la compagnia petrolifera statale (la più grande del paese con i suoi 6 mila dipendenti, 150 dei quali stranieri), passata con i rivoltosi dopo l’inizio delle proteste contro il regime sfociate poi nella guerra civile. La Agoco si occupa in particolare di esplorazione e produzione del greggio, le altre compagnie del resto, dalla raffinazione al marketing. «Ma ora siamo completamente fermi – ci dice l’ingegnere Abdel Jalil Maiyuf, portavoce della Agoco – la produzione e raffinazione sono bloccate ovunque, non solo nella parte ovest della Libia sotto il controllo del colonnello Muammar Gheddafi ma anche nelle aree orientali e meridionali che sono sotto il controllo del Cnt». Mancano le condizioni di sicurezza, aggiunge Maiyuf, «operai e specialisti hanno paura, temono che gli impianti di Sarir e Misla (500 km più a sud) vengano di colpiti dall’artiglieria nemica o da unità speciali di sabotatori, come è avvenuto a Misla».
Prima del 17 febbraio, giorno dell’inizio della sommossa a Benghazi, la Agoco estraeva quotidianamente 425mila del milione e 600mila barili della produzione libica. «Ora abbiamo soltanto le scorte dei nostri depositi e il Cnt ha intenzione di venderle», aggiunge il portavoce, spiegando che «quei soldi servono come il pane al governo (ribelle) se vuole comprare armi e assistere la popolazione locale». E i contatti sono in corso da settimane, con la Francia che, tra i paesi europei, continua a fare la parte del leone nei rapporti con i rivoltosi.
Ieri, mentre Maiyuf rispondeva alle nostre domande, al quarto piano di un edificio nel quartier generale della Agoco, un alto rappresentante diplomatico di Parigi aveva un colloquio «molto riservato» e, ovviamente, chiuso alla stampa, con due esponenti del Cnt. Un incontro tenuto, certo non per caso, nella sede della compagnia petrolifera. «Non posso entrare nel merito delle trattative in corso con varie parti internazionali, non sono di competenza della Agoco – precisa Maiyuf – posso dire però che sono stati raggiunti accordi nelle scorse settimane per far partire tre petroliere da Marsa al Hariga: una diretta in Cina con un milione di barili, un’altra verso l’Austria con 600mila barili e la terza con un milione di barili per il Qatar, paese che si occupa di vendere il nostro greggio sul mercato internazionale».
Tobruk si trova in una profonda insenatura che ne fa un porto perfetto, probabilmente il migliore porto naturale nel Nordafrica. È perciò l’approdo più facile, anche in tempo di guerra. Su questa città teatro di epiche battaglie durante la seconda guerra mondiale si appoggiano i leader ribelli per garantirsi le risorse economiche e i rifornimenti che reclamano. Ma è da dimostrare che il Cnt possieda i 2,6 milioni di barili che, dice Maiyuf, sono stati venduti a tre acquirenti internazionali. Secondo più fonti le riserve non andrebbero oltre il milione di barili e quindi sarebbero già state caricate interamente sulla «Equator», la prima petroliera giunta a Tobruq nei giorni scorsi. In ogni caso dalla vendita di quel greggio, ai prezzi attuali, i ribelli dovrebbero incassare almeno 120 milioni di dollari. Soldi che non verranno certo investiti nell’acquisto di macchinari e medicinali necessari all’ospedale al Hawari, il più importante della Libia orientale, che opera in condizioni di emergenza da quasi due mesi.
Con quei soldi, secondo fonti dei servizi segreti britannici, i leader del Cnt potranno comprare oltre 200 jeep corazzate, almeno 200 mila mitra ak-47 e un migliaio di lanciarazzi, forse quelli anti-tank di fabbricazione francese che, a sentire il vice ministro degli esteri libico, Khaled Kaim, Doha avrebbe già inviato a Benghazi assieme a 20 specialisti, incaricati di addestrare circa 700 ribelli. Anche di armi andrà a parlare a Washington questa settimana il «ministro degli esteri» del Cnt, Mahmoud Jibril, durante gli incontri che avrà al Pentagono, al Dipartimento di Stato e con esponenti del Congresso. Jibril vedrà il vice segretario di Stato, James Steinberg, sperando di convincere gli Usa a passare armi ai rivoltosi libici dopo aver riconosciuto la «necessità» di aiuti finanziari al Cnt.
Ma i ribelli non sembrano fare i conti con una «prossima» urgenza: la penuria di benzina e gasolio. La riconquista da parte delle forze armate di Gheddafi di Ras Lanuf ha tagliato i rifornimenti e Benghazi si sta guardando intorno per non rimanere paralizzata nelle prossime settimane. «Abbiamo il greggio ma non le raffinerie – ammette Maiyuf – e a Tobruq oltre ad esportare il petrolio presto potremmo trovarci nella condizione di far arrivare la benzina, pagandola a caro prezzo».
*****

I «volenterosi» alla Nato: intensificare i raid aerei

Manlio Dinucci

Ai ribelli libici verranno fornite «armi, strumenti di comunicazione e apparati per l’intercettazione delle comunicazioni radio del regime»: lo ha annunciato il ministro degli esteri Frattini di ritorno dalla riunione del «Gruppo di contatto» (di cui fanno parte 20 paesi e organizzazioni internazionali) svoltasi a Doha, capitale del Qatar. Sede scelta dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Una sede ideale per la difesa dei «diritti umani» in Libia: il Qatar, che partecipa alla guerra in Libia con i cacciabombardieri francesi Mirage, è infatti governato da una monarchia ereditaria, che concentra nelle proprie mani tutti i poteri, nega al suo popolo i più elementari diritti umani e che ha inviato truppe in Bahrain per schiacciare nel sangue la richiesta popolare di democrazia.
Tutti sono d’accordo nel dare finanziamenti ai ribelli, ma sulla fornitura di armi, sostiene il ministro degli esteri italiano, «non c’è una unanimità di previsione e ogni paese potrà valutare come aiutare». Tra i ribelli vi sono gruppi islamici – come il Gruppo combattente islamico, fondato in Afghanistan da mujaheddin libici e collegato alla Cia e al MI6 britannico – che oggi sono utili contro Gheddafi, ma che domani potrebbero diventare pericolosi per gli interessi statunitensi e alleati in Libia. Dal canto suo, il portavoce del «Comitato nazionale transitorio» di Bengasi sostiene con Italia, Francia e Qatar si stanno «definendo gli ultimi dettagli» per la fornitura di armi. Insieme alle armi, saranno inoltre inviati in Libia anche istruttori italiani e francesi per addestrare i ribelli al loro uso.
Il «Gruppo di contatto», che si riunirà di nuovo a Roma agli inizi di maggio, è stato unanime nel chiedere all’Alleanza atlantica di «intensificare i raid aerei contro le forze del regime». Da quando la Nato ha assunto il comando della guerra, ridenominata «Operazione protettore unificato», ha organizzato, nel quartiere generale delle operazioni militari a Napoli, oltre 2.000 raid in Libia, in media 160 al giorno, utilizzando 200 aerei. Agli attacchi, oltre ai caccia britannici e francesi, partecipano anche quelli statunitensi. Tra gli aerei Usa messi a disposizione della Nato vi sono gli A-10 Thunderbolt e AC-130 Specter, i cui cannoni sparano fino a 6mila proiettili al minuto, per la maggior parte a uranio impoverito.
Secondo i resoconti ufficiali della Nato, in un solo giorno (12 aprile) sono stati distrutti dagli attacchi aerei 16 carrarmati e altri veicoli. Una ripresa video, effettuata da un aereo britannico a Misurata, mostra un carrarmato che viene inquadrato nel mirino e che improvvisamente esplode, con una deflagrazione dall’interno: il tipico effetto di un missile con testata a uranio impoverito che, forando la corazza ed esplodendo all’interno, sviluppa una temperatura di migliaia di gradi. Dall’esplosione del carrarmato si leva una grande nube che si propaga nella zona abitata circostante: è il pulviscolo radioattivo che provoca tumori e malformazioni anche nelle future generazioni. Gli attacchi aerei però non bastano e il «Gruppo di contatto» chiede che siano intensificati, anche se il segretario generale dell’Onu ha dichiarato, durante la riunione di Doha, di essere «preoccupato per la situazione umanitaria in Libia».
entrambi gli articoli sono stati pubblicati da “il manifesto” del 15 aprile 2011

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *