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I timori di Vik utopia

Vittorio si concedeva pochi svaghi. Un po’ di esercizio fisico in palestra e, a sera, una shisha, il narghilè, se possibile sulla spiaggia di Gaza city, in compagnia di un paio dei tantissimi amici che aveva nella Striscia. Da qualche mese si accompagnava spesso con Khalil Shahin, un ricercatore del «Centro per i diritti umani», con il quale avviava le lunghe conversazioni sui possibili sviluppi della situazione, a partire dal blocco israeliano per finire alle dinamiche sociali. Conversazioni che pur tenendolo impegnato, talvolta, per gran parte della notte, non gli impedivano di arrivare puntuale agli appuntamenti con l’intesa attività politica di Gaza.
I suoi amici in lacrime e molte migliaia di palestinesi ieri hanno preso parte alla cerimonia funebre in suo onore, sotto la tenda del lutto allestita nel porto di Gaza, nel punto dove per la prima volta sbarcò nel 2008. Una folla muta in un’atmosfera di incredulità, per un uomo stimato ovunque, al quale era stata anche data la cittadinanza onoraria palestinese.Volti smarriti, occhi bassi, frasi pronunciate con voce rotta dalla commozione da parte di chi non riesce ancora a credere che tutto questo sia potuto accadere e che mani assassine abbiano strangolato un volontario internazionale, ancora prima che un giornalista e uno scrittore, che a Gaza e alla sua gente aveva dato tutto. Con generosità, mettendo a rischio anche la sua vita.
Dopo il suo primo arrivo a Gaza, Vittorio aveva concentrato buona parte della sua attività di volontario ad offrire, per quanto possibile, protezione ai pescatori palestinesi. Protezione simbolica, ma molto significativa. Perché fatta con il suo stesso corpo, con la sua presenza a bordo di pescherecci e battelli spesso respinti dalle unità della Marina militare israeliana pronta a intervenire per far rispettare gli strettissimi limiti di pesca imposti dall’occupazione. «Non sparate, siamo cittadini stranieri, qui ci sono soltanto dei pescatori che vogliono sostenere le loro famiglie», urlava fino a perdere la voce, assieme ai suoi compagni dell’International solidarity movement (Ism), ai militari israeliani decisi, anche con raffiche di mitra sparate a pelo d’acqua, a costringere i pescatori a tornare subito indietro (con le reti vuote). Colpi che, rimbalzando sull’acqua, in questi anni hanno ferito e anche ucciso. Una volta un proiettile mandò in frantumi un vetro su di una imbarcazione e le schegge ferirono leggermente alla schiena Vittorio. Qualche giorno dopo venne arrestato (in acqua), immobilizzato con una scossa di pistola «taser», spedito in prigione per alcuni giorni in Israele – con l’accusa di essere entrato illegalmente nel paese, ma lui era andato direttamente a Gaza in barca da Cipro – e infine espulso. Ma nella Striscia rientrò poco dopo, sempre via mare.
Dopo «Piombo fuso» e un lungo tour di incontri e dibattiti tenuti in Italia, da nord a sud, seguito da alcuni mesi trascorsi in Egitto, Vittorio era rientrato a Gaza. Tornò con la stessa determinazione ma più maturo, deciso a usare al meglio la grande popolarità di cui godeva, e che all’inizio lo aveva un po’ travolto, per diffondere il maggior numero possibile di informazioni dalla Striscia. Il suo impegno lo ha portato per mesi, ogni giorno, a proteggere, sempre e soltanto con la semplice presenza fisica e un megafono, i contadini palestinesi che provavano a raggiungere i loro campi coltivati in quella «fascia cuscinetto» larga centinaia di metri, adiacente al confine, che Israele ha proclamato unilateralmente all’interno di Gaza dopo «Piombo fuso».
Un’attività assolutamente pacifica che non salvò Vittorio dalle pesanti minacce partite da alcuni siti vicini alla destra estrema israeliana. E che ieri, nel giorno della scoperta dell’assassinio di Vittorio, sono tornati a farsi sentire. «Uno scudo umano che lavorava per Hamas», ha scritto di Vittorio Stop the Ism salutandolo con un sarcastico e macabro «Arrivederci, Arrigoni», scritto in italiano. Nel 2009 questo sito pose in cima ad una vera e propria lista di proscrizione il nome e la foto di Vittorio. L’agenzia d’informazione dei coloni Israel national news è arrivata ad attribuire all’Ism la responsabilità per il conflitto a Gaza e facendo il nome di Arrigoni, sostiene addirittura che i volontari di questo movimento metterebbero «in pericolo la vita dei soldati israeliani e per questo vanno considerati combattenti al pari di Hamas». Da eliminare dunque? L’interrogativo è legittimo.
Vittorio ci scherzava sopra, ma fino ad un certo punto. Troppe volte, mi raccontava, aveva sentito il sibilo delle pallottole sparate, spesso da sistemi d’arma controllati a distanza, contro chi provava a entrare nella «fascia di sicurezza» di Gaza. Diceva che una pallottola era pronta anche per lui. Ma poi tornava sereno, per concentrarsi sulla sua attività di informazione.
Aveva stabilito una rete di «corrispondenti» (i suoi tanti amici) ovunque nella Striscia, pronti a riferirgli di ogni singolo sviluppo. Per questo il suo blog e il suo profilo su Facebook sono diventati, specie nell’ultimo anno, una sorta di giornale online: puntuale negli aggiornamenti, acuto nei commenti. Vittorio però non trascurava mai di seguire anche quanto accadeva in Italia: la politica interna e, soprattutto, qualsiasi cosa che avesse relazione con Gaza. Per mesi ha girato in rete il suo messaggio rivolto allo scrittore Roberto Saviano, difensore accanito della legalità in Italia ma muto sulle violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi.
Alla fine dello scorso anno aveva cominciato a frequentare più assiduamente un nutrito gruppo di giovani di Gaza che denunciano l’insostenibilità della situazione e sono divenuti noti per il manifesto diffuso in internet che spara a zero su tutti: da Fatah ad Hamas, da Israele agli Usa fino alle Nazioni Unite. Giovani che Vittorio ha dovuto difendere dall’accusa di qualunquismo e di «mettere sullo stesso piano la resistenza (Hamas) e Fatah (l’Anp di Abu Mazen)» giunta dall’Italia. Vittorio spiegò che sono ragazzi che esprimono esigenze reali e contenuti politici concreti e non dei ragazzini viziati e figli della borghesia. Perché lui Gaza la viveva ogni giorno, la annusava, ne avvertiva i fermenti. Aveva la capacità di giudizio di chi sta sul posto, ben diversa, con tutto il rispetto, da quella di chi segue gli avvenimenti a distanza di migliaia di chilometri.
Salafiti, una parola grossa quando si parla della Striscia di Gaza martoriata da problemi enormi. Eppure esistono, gruppi sparuti, spesso poche decine di giovani che trovano nell’esasperazione del discorso religioso una via d’uscita al tunnel di una esistenza d’inferno. Sono «mostri» incoscienti, partoriti dagli oltre 40 anni di occupazione, dall’assedio, che reclamano la separazione dal diverso, denunciano le «contaminazioni culturali occidentali» e in non pochi casi praticano la violenza. Quasi certamente sono manovrati e pagati dall’esterno e hanno tra i loro obiettivi quello di mettere in costante difficoltà il governo di Hamas che accusano di «aver tradito la resistenza islamica» attuando una tregua non dichiarata con Israele.
Raccolgono qualche consenso tra Khan Yunis e Rafah (dove nel 2009 proclamarono anche un «emirato islamico», poi annientato dalle forze di sicurezza di Hamas) e a finanziarli, si dice a Gaza, sarebbe Bandar bin Sultan, l’ex ambasciatore saudita a Washington, molto potente e noto per i suoi stretti legami con la Cia e altri servizi segreti (in Siria viene accusato di sponsorizzare i gruppi religiosi impegnati nelle proteste di queste settimane contro Bashar Assad).
I salafiti sono stati chiamati in causa da più parti, lo abbiamo fatto anche noi, in riferimento all’assassinio di Vittorio. È prematuro dichiararli sicuri responsabili di questo crimine immenso. Ma lo stesso Vittorio parlava di loro, della loro penetrazione nella società, durante i nostri incontri a Gaza. La scorsa estate un paio di campi estivi per ragazzi profughi furono date alle fiamme da uomini con il volto coperto, perché favorivano la «promiscuità sessuale» e sconosciuti hanno distrutto negli ultimi anni, perché «immorali», numerosi internet point, negozi di parrucchiere e di vendita di cd musicali.
E nessuno dimentica il rapimento nel 2007 del giornalista della Bbc Alan Johnstone. Fatti «marginali» per chi vive in Europa per chi analizza dall’esterno, ma non per la gente di Gaza e certo non per Vittorio che registrava da tempo queste pulsioni. Non sarà facile arrivare ai responsabili veri , quelli dietro le quinte, dell’eliminazione di un giornalista, un attivista e un amico che con la sua passione, la sua presenza e le sue puntuali e particolareggiate cronache dalla Striscia ha dato molto fastidio. Ma indagare prima di tutto a Gaza è d’obbligo. Michele Giorgio
Vittorio si concedeva pochi svaghi. Un po’ di esercizio fisico in palestra e, a sera, una shisha, il narghilè, se possibile sulla spiaggia di Gaza city, in compagnia di un paio dei tantissimi amici che aveva nella Striscia. Da qualche mese si accompagnava spesso con Khalil Shahin, un ricercatore del «Centro per i diritti umani», con il quale avviava le lunghe conversazioni sui possibili sviluppi della situazione, a partire dal blocco israeliano per finire alle dinamiche sociali. Conversazioni che pur tenendolo impegnato, talvolta, per gran parte della notte, non gli impedivano di arrivare puntuale agli appuntamenti con l’intesa attività politica di Gaza.
I suoi amici in lacrime e molte migliaia di palestinesi ieri hanno preso parte alla cerimonia funebre in suo onore, sotto la tenda del lutto allestita nel porto di Gaza, nel punto dove per la prima volta sbarcò nel 2008. Una folla muta in un’atmosfera di incredulità, per un uomo stimato ovunque, al quale era stata anche data la cittadinanza onoraria palestinese.Volti smarriti, occhi bassi, frasi pronunciate con voce rotta dalla commozione da parte di chi non riesce ancora a credere che tutto questo sia potuto accadere e che mani assassine abbiano strangolato un volontario internazionale, ancora prima che un giornalista e uno scrittore, che a Gaza e alla sua gente aveva dato tutto. Con generosità, mettendo a rischio anche la sua vita.
Dopo il suo primo arrivo a Gaza, Vittorio aveva concentrato buona parte della sua attività di volontario ad offrire, per quanto possibile, protezione ai pescatori palestinesi. Protezione simbolica, ma molto significativa. Perché fatta con il suo stesso corpo, con la sua presenza a bordo di pescherecci e battelli spesso respinti dalle unità della Marina militare israeliana pronta a intervenire per far rispettare gli strettissimi limiti di pesca imposti dall’occupazione. «Non sparate, siamo cittadini stranieri, qui ci sono soltanto dei pescatori che vogliono sostenere le loro famiglie», urlava fino a perdere la voce, assieme ai suoi compagni dell’International solidarity movement (Ism), ai militari israeliani decisi, anche con raffiche di mitra sparate a pelo d’acqua, a costringere i pescatori a tornare subito indietro (con le reti vuote). Colpi che, rimbalzando sull’acqua, in questi anni hanno ferito e anche ucciso. Una volta un proiettile mandò in frantumi un vetro su di una imbarcazione e le schegge ferirono leggermente alla schiena Vittorio. Qualche giorno dopo venne arrestato (in acqua), immobilizzato con una scossa di pistola «taser», spedito in prigione per alcuni giorni in Israele – con l’accusa di essere entrato illegalmente nel paese, ma lui era andato direttamente a Gaza in barca da Cipro – e infine espulso. Ma nella Striscia rientrò poco dopo, sempre via mare.
Dopo «Piombo fuso» e un lungo tour di incontri e dibattiti tenuti in Italia, da nord a sud, seguito da alcuni mesi trascorsi in Egitto, Vittorio era rientrato a Gaza. Tornò con la stessa determinazione ma più maturo, deciso a usare al meglio la grande popolarità di cui godeva, e che all’inizio lo aveva un po’ travolto, per diffondere il maggior numero possibile di informazioni dalla Striscia. Il suo impegno lo ha portato per mesi, ogni giorno, a proteggere, sempre e soltanto con la semplice presenza fisica e un megafono, i contadini palestinesi che provavano a raggiungere i loro campi coltivati in quella «fascia cuscinetto» larga centinaia di metri, adiacente al confine, che Israele ha proclamato unilateralmente all’interno di Gaza dopo «Piombo fuso».
Un’attività assolutamente pacifica che non salvò Vittorio dalle pesanti minacce partite da alcuni siti vicini alla destra estrema israeliana. E che ieri, nel giorno della scoperta dell’assassinio di Vittorio, sono tornati a farsi sentire. «Uno scudo umano che lavorava per Hamas», ha scritto di Vittorio Stop the Ism salutandolo con un sarcastico e macabro «Arrivederci, Arrigoni», scritto in italiano. Nel 2009 questo sito pose in cima ad una vera e propria lista di proscrizione il nome e la foto di Vittorio. L’agenzia d’informazione dei coloni Israel national news è arrivata ad attribuire all’Ism la responsabilità per il conflitto a Gaza e facendo il nome di Arrigoni, sostiene addirittura che i volontari di questo movimento metterebbero «in pericolo la vita dei soldati israeliani e per questo vanno considerati combattenti al pari di Hamas». Da eliminare dunque? L’interrogativo è legittimo.
Vittorio ci scherzava sopra, ma fino ad un certo punto. Troppe volte, mi raccontava, aveva sentito il sibilo delle pallottole sparate, spesso da sistemi d’arma controllati a distanza, contro chi provava a entrare nella «fascia di sicurezza» di Gaza. Diceva che una pallottola era pronta anche per lui. Ma poi tornava sereno, per concentrarsi sulla sua attività di informazione.
Aveva stabilito una rete di «corrispondenti» (i suoi tanti amici) ovunque nella Striscia, pronti a riferirgli di ogni singolo sviluppo. Per questo il suo blog e il suo profilo su Facebook sono diventati, specie nell’ultimo anno, una sorta di giornale online: puntuale negli aggiornamenti, acuto nei commenti. Vittorio però non trascurava mai di seguire anche quanto accadeva in Italia: la politica interna e, soprattutto, qualsiasi cosa che avesse relazione con Gaza. Per mesi ha girato in rete il suo messaggio rivolto allo scrittore Roberto Saviano, difensore accanito della legalità in Italia ma muto sulle violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi.
Alla fine dello scorso anno aveva cominciato a frequentare più assiduamente un nutrito gruppo di giovani di Gaza che denunciano l’insostenibilità della situazione e sono divenuti noti per il manifesto diffuso in internet che spara a zero su tutti: da Fatah ad Hamas, da Israele agli Usa fino alle Nazioni Unite. Giovani che Vittorio ha dovuto difendere dall’accusa di qualunquismo e di «mettere sullo stesso piano la resistenza (Hamas) e Fatah (l’Anp di Abu Mazen)» giunta dall’Italia. Vittorio spiegò che sono ragazzi che esprimono esigenze reali e contenuti politici concreti e non dei ragazzini viziati e figli della borghesia. Perché lui Gaza la viveva ogni giorno, la annusava, ne avvertiva i fermenti. Aveva la capacità di giudizio di chi sta sul posto, ben diversa, con tutto il rispetto, da quella di chi segue gli avvenimenti a distanza di migliaia di chilometri.
Salafiti, una parola grossa quando si parla della Striscia di Gaza martoriata da problemi enormi. Eppure esistono, gruppi sparuti, spesso poche decine di giovani che trovano nell’esasperazione del discorso religioso una via d’uscita al tunnel di una esistenza d’inferno. Sono «mostri» incoscienti, partoriti dagli oltre 40 anni di occupazione, dall’assedio, che reclamano la separazione dal diverso, denunciano le «contaminazioni culturali occidentali» e in non pochi casi praticano la violenza. Quasi certamente sono manovrati e pagati dall’esterno e hanno tra i loro obiettivi quello di mettere in costante difficoltà il governo di Hamas che accusano di «aver tradito la resistenza islamica» attuando una tregua non dichiarata con Israele.
Raccolgono qualche consenso tra Khan Yunis e Rafah (dove nel 2009 proclamarono anche un «emirato islamico», poi annientato dalle forze di sicurezza di Hamas) e a finanziarli, si dice a Gaza, sarebbe Bandar bin Sultan, l’ex ambasciatore saudita a Washington, molto potente e noto per i suoi stretti legami con la Cia e altri servizi segreti (in Siria viene accusato di sponsorizzare i gruppi religiosi impegnati nelle proteste di queste settimane contro Bashar Assad).
I salafiti sono stati chiamati in causa da più parti, lo abbiamo fatto anche noi, in riferimento all’assassinio di Vittorio. È prematuro dichiararli sicuri responsabili di questo crimine immenso. Ma lo stesso Vittorio parlava di loro, della loro penetrazione nella società, durante i nostri incontri a Gaza. La scorsa estate un paio di campi estivi per ragazzi profughi furono date alle fiamme da uomini con il volto coperto, perché favorivano la «promiscuità sessuale» e sconosciuti hanno distrutto negli ultimi anni, perché «immorali», numerosi internet point, negozi di parrucchiere e di vendita di cd musicali.
E nessuno dimentica il rapimento nel 2007 del giornalista della Bbc Alan Johnstone. Fatti «marginali» per chi vive in Europa per chi analizza dall’esterno, ma non per la gente di Gaza e certo non per Vittorio che registrava da tempo queste pulsioni. Non sarà facile arrivare ai responsabili veri , quelli dietro le quinte, dell’eliminazione di un giornalista, un attivista e un amico che con la sua passione, la sua presenza e le sue puntuali e particolareggiate cronache dalla Striscia ha dato molto fastidio. Ma indagare prima di tutto a Gaza è d’obbligo.

LE SUE BATTAGLIE

Restiamo umani
nonostante tutto

Vittorio Arrigoni, 36 anni, era membro dell’International Solidarity Movement e dal 2008 si era trasferito a Gaza, da dove informava sulle drammatiche condizioni dei palestinesi della Striscia. Lo stesso anno è stato arrestato dall’esercito israeliano per aver difeso 15 pescatori palestinesi che pescavano in acque internazionali. Vittorio era critico sia nei confronti della teocrazia di Hamas sia con Fatah in Cisgiordania, che considerava nei fatti collaborazionista con Israele. Molto attivo nell’organizzazione della Freedom Flotilla, per il suo blog Guerilla Radio e per il manifesto ha raccontato, unico occidentale presente nella Striscia, la guerra scatenata da Tel Aviv contro Gaza a cavallo tra 2008 e 2009. Dai suoi reportage è nato il libro «Restiamo umani» (manifestolibri). Nel 2010 ha postato un’aspra videorisposta alle posizioni filo-israeliane di Roberto Saviano. Recentemente si era espresso a favore delle «primavere arabe».

LA MADRE «Si sentiva palestinese, la sua vita per i più deboli»

«Aveva scelto la sua vita: stare dalla parte dei più sfortunati. Sono orgogliosa di lui». È una donna forte, Egidia Beretta, sindaco di Bulciago (Lecco): assomiglia, come lei stessa dice, a suo figlio Vittorio Arrigoni. Straziata dal dolore ma con grande calma e dignità, ieri ha raccontato ai giornalisti: «Restiamo umani, diceva spesso Vittorio. E io gli chiedevo: ma come facciamo a restare umani davanti a quello che succede? Mamma, rispondeva, dobbiamo esserlo sempre perché nonostante tutto l’umanità deve esserci sempre dentro di noi e dobbiamo portarla agli altri». «Non so perché abbiano scelto Vittorio, non riesco a spiegarmelo -continua Egidia Beretta – Era tranquillo anche perché stava per tornare in Italia, stava programmando il rientro. Quando era stato per la prima volta a Gerusalemme, passando sotto la porta di Damasco, era rimasto letteralmente folgorato da quel paese. Vittorio si era innamorato di quella terra e di quella gente. Lui si sentiva palestinese e viveva come uno di loro».

Hamas alla famiglia:
«Li arresteremo»

Con una telefonata alla madre di Vittorio Arrigoni, Ismail Haniyeh, il capo del governo di Gaza, ha promesso indagini serie per la cattura dei responsabili. Haniyeh ha espresso alla signora Egidia Beretta la condanna del governo palestinese per l’omicidio e l’omaggio alla vittima auspicando il viaggio di un una delegazione ufficiale da Gaza in Italia per fare le condoglianze alla famiglia. Subito dopo, nel corso di una conferenza stampa, come riportato dal sito vicino ad Hamas “palestine.info”, estendendo le condoglianze dei palestinesi «a tutti gli italiani», ha annunciato l’intenzione di dedicare una strada di Gaza City a Vittorio Arrigoni, esaltato come un eroe della «lotta contro l’assedio» israeliano alla Striscia. «La sua morte ci addolora poiché consideravamo Vittorio uno di noi palestinesi», ha detto l’esponente di Hamas affermando che coloro che lo hanno ucciso «sono individui marginali» e «non veri palestinesi». Secondo Haniyeh, il mancato rispetto dell’ultimatum annunciato giovedì dai sequestratori di Arrigoni indica che c’era «intenzione di ucciderlo a priori».
Haniyeh ha anche annunciato un piano «anti-crimine» nella Striscia di Gaza, assicurando che l’uccisione del pacifista rappresenta «un crimine isolato e non descrive le condizioni di sicurezza» all’interno dell’enclave. Gaza, ha assicurato, «é sicura sia per i suoi abitanti che per gli stranieri»
*. da “il manifesto” del 16 aprile 2011

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