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“A buon rendere, Italia”

INVIATO A BENGASI-Era in Italia ieri il leader del Consiglio nazionale transitorio libico (Cnt), Mustafa Abdul Jalil, per colloqui con il governo Berlusconi che ha riconosciuto come legittimo l’esecutivo degli insorti anti-Gheddafi che controllano le regioni orientali della Libia. Abbiamo intervistato a Bengasi il vice presidente del Cnt, Abdul Hafiz Ghoga. Avvocato per i diritti umani, rappresentante delle famiglie degli uccisi nella prigione di Abu Salim nel 1996, è considerato un esponente di primo piano della società civile libica. Con lui abbiamo parlato del viaggio di Abdul Jalil in Italia, di petrolio, della guerra civile e delle relazioni economiche e diplomatiche avviate dal Cnt con vari paesi.

Quanto è importante per il Cnt questa visita di Abdul Jalil a Roma?
Molto. La visita in Italia rientra nel tour del presidente Jalil nei tre paesi che hanno riconosciuto il Consiglio nazionale transitorio libico (gli altri due sono Francia e Qatar, ndr). A Roma Abdul Jalil ha avuto modo di ringraziare il governo italiano per l’aiuto che ha promesso al popolo che vive nelle aree liberate della Libia e di sviluppare il dialogo in corso tra le due parti.
Anche sulle forniture di armi?
Di ciò si occupa il nostro comandante militare, Abdel Fattah Younis, che mantiene i contatti con i responsabili italiani e di altri paesi su questo punto che consideriamo fondamentale per contrastare le forze armate di Gheddafi. Younis attende delle risposte dall’Italia già in questi giorni.
Il governo Berlusconi ha avuto rapporti strettissimi con Gheddafi, questo non vi crea alcun dubbio o incertezza nel dialogare con chi fino a poco più di due mesi fa, riceveva con grandi onori il vostro nemico?
No, non abbiamo alcun imbarazzo o problema. Siamo felici che il governo italiano abbia deciso di schierarsi con il popolo libico e con il Cnt. Non ci ha sorpreso l’atteggiamento italiano perché sappiamo della grande amicizia che esiste tra i due popoli e del desiderio dell’Italia di agire per proteggere i civili libici.
Il trattato di amicizia tra Libia e Italia però contiene anche capitoli contestati da una porzione significativa della popolazione italiana, in particolare la questione della lotta ai migranti diretti verso l’Italia che Gheddafi ha svolto con particolare durezza. Il Cnt rispetterà anche questo punto controverso del trattato?
Il Cnt rispetterà ogni punto del trattato italo-libico. Il governo (Berlusconi) ci sta offrendo una grande opportunità e noi ricambieremo l’Italia impedendo ai migranti di raggiungere clandestinamente le vostre coste.
Veniamo alle questioni sul terreno. Chiedete la caduta del regime e l’allontanamento dal potere di Gheddafi e della sua famiglia. Una possibilità che al momento non sembra vicina a concretizzarsi. La parola perciò resta alle armi?
In ogni caso il Cnt non resta a guardare e continua la costruzione della nuova Libia. E non si sta muovendo solo nelle zone liberate ma anche nell’ovest controllato da Gheddafi. Tanti libici dell’ovest sono già nel Cnt, persino a Tripoli, ma non possiamo rivelare i loro nomi per evitare che vengano colpito dal regime. Il nostro impegno è nazionale. Ma ci stiamo muovendo anche all’estero per raccogliere nuovi consensi e aiuti di ogni genere, dai generi di prima necessità per la popolazione fino alle armi per i nostri combattenti. E abbiamo instaurato rapporti diretti e indiretti con tanti paesi perché sappiamo che Gheddafi anche se ha perduto la legittimità internazionale è ancora al suo posto e farà di tutto per non lasciare il potere.
L’esportazione del petrolio è il vostro biglietto da visita in molti paesi. Quando riprendere la produzione di greggio nei giacimenti che sono sotto il vostro controllo?
Non posso dirlo con certezza. Nelle settimane passate le forze di Gheddafi hanno attaccato alcuni centri petroliferi, come Misla e Sarir (a circa 500 km a sud di Bengasi, ndr), che sono collegati direttamente al porto di Tobruk (da dove partono le petroliere, ndr). Abbiamo già venduto un milione di barili che erano nei nostri depositi e al più presto ripareremo i danni subiti dagli impianti di estrazione del petrolio in modo da regolarizzare l’esportazione. Ci sono diversi paesi interessati. Il Qatar ha accettato di occuparsi della vendita del nostro greggio ed è il nostro partner principale in questo settore, ma in futuro contiamo di stabilire i rapporti con tutti gli stati che hanno accordi con la Libia in campo petrolifero.
Il Cnt afferma di lottare per fare della Libia un paese libero, con istituzioni democratiche, stampa libera, elezioni trasparenti e una piena rappresentanza politica. Su queste basi altri popoli arabi stanno lottando contro i loro regimi. Come vi ponete di fronte alle altre rivolte arabe?
Stiamo lottando per ottenere una Libia diversa, democratica, con libertà di pensiero e di espressione, pertanto siamo dalla parte di tutti i popoli arabi che si stanno battendo contro regimi autoritari e per conquistare la libertà.
Libertà anche nel Qatar, che vi sostiene apertamente, e nel resto degli emirati e monarchie del Golfo, come il Bahrein?
I paesi del Golfo sono diversi da altri paesi del Medio oriente. Quelle di Libia e Siria sono dittature brutali. In Egitto, Tunisia e Yemen per decenni si sono svolte elezioni-farsa. Il Qatar invece sta aiutando le rivoluzioni per la democrazia in molti paesi ed è democratico. Lo stesso vale per il Bahrein e altri paesi del Golfo. Sono situazioni molto diverse dalla Libia o dalla Siria e non vanno messe sullo stesso piano. (Il rapporto 2010 di Amnesty International sul Qatar denuncia violenze e discriminazioni contro le donne, forti limitazioni alla libertà di espressione, diritti negati ai migranti, esecuzioni e anche condanne a 40-100 frustate per una ventina di persone accusate di blasfemia e consumo di alcolici; il Bahrein è una monarchia assoluta dove il re, il mese scorso, ha soppresso nel sangue una rivolta popolare per la democrazia con l’aiuto di truppe saudite, ndr)
da “il manifesto” del 20 aprile 2011
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L’Onu a Tripoli: fermate gli attacchi a Misurata

 

C’è il deserto a fare da palcoscenico alle battaglie, come nella Seconda Guerra Mondiale, ma gli scontri nella regione di Ajdabiya tra le forze fedeli a Muammar Gheddafi e i ribelli anti-regime si avvicinano alla guerra di trincea del primo conflitto mondiale. Mentre a Misurata le due parti si affrontano casa per casa, con l’artiglieria governativa che martella diversi quartieri della città (i morti sono stati almeno mille in due mesi, almeno 3mila i feriti), sul fronte sud-ovest da giorni si assiste a un tira e molla senza soluzione di continuità. Sabato il comandante degli insorti, Abdel Fattah Younis, aveva guidato i suoi uomini fino alle porte di Marsa el Brega allungando di altri 40 km il territorio controllato dal Consiglio nazionale di transizione (Cnt) di Bengasi. Domenica, approfittando anche di una tempesta di sabbia, unità scelte di Gheddafi – aiutate, dicono i ribelli, da decine di mercenari algerini e di altri paesi ben addestrati al combattimento – hanno aggirato il grosso delle forze avversarie e si sono presentate davanti al Bab Gharbi, la Porta occidentale di Ajdabiya mettendo in fuga i «twar», i rivoluzionari più giovani ed inesperti. Le forze lealiste non si sono spinte molto più avanti. Hanno piantato la bandiera verde a Bab Gharbi e prima del tramonto sono arretrate per non rimanere intrappolate tra i reparti di Abdel Fattah Younis e le centinaia di combattenti partiti immediatamente da Bengasi. Le notizie ieri dal fronte, sempre meno accessibile alla stampa per decisione dei comandi militari ribelli, descrivevano una situazione fluida, con le due parti sostanzialmente ferme sulle stesse posizioni.
È a Misurata che si sta combattendo la battaglia vera. La città è ridotta in macerie in diversi punti e gli aiuti umanitari giungono solo via mare, inviati da Bengasi. Anche per i giornalisti non è facile raggiungerla. Devono mettersi in lista di attesa e aspettare di potersi imbarcare sulle rare navi che partono per la città con viveri e medicine. E, come informa una nota del Palazzo di Vetro da New York, uno stop immediato agli attacchi a Misurata, soprattutto per agevolare la distribuzione dell’assistenza umanitaria e i soccorsi ai feriti, è stato chiesto alle autorità libiche da due rappresentanti dell’Onu, l’inviato speciale Andul Ilah Al-Khatib e il segretario per le questioni umanitarie Valerie Amos, che hanno incontrato domenica a Tripoli il premier Mahmud Al-Baghdadi e il ministro degli esteri Abdelati Obeidi. Anche Emergency chiede di «fermare il massacro e garantire le cure alle vittime di Misurata». Dal 10 aprile 2011 i medici e gli infermieri di Emergency sono l’unico team internazionale che opera a Misurata in condizioni disperate.
Da Misurata giungono notizie drammatiche ma non sempre verificabili. Il britannico Sunday Times due giorni fa ha accusato il regime di Gheddafi di usare lo stupro come «arma di guerra», riportando una decina di casi a Misurata e un altro centinaio nel resto della Libia (Ras Lanuf, Bin Jawad, Ugayla, Ajdabiya e Sidi Bashur), di donne violentate da militari fedeli al colonnello spesso in azioni di gruppo alimentate, ha scritto il giornale, «dal Viagra, altre volte semplicemente dal desiderio di punire e umiliare le vittime». Un medico, Khalifa al Sharkassi, ha raccontato il caso di una donna che ha cercato di pulirsi con la candeggina dopo lo stupro e un altro di due sorelle di 16 e 20 anni violentate davanti alla madre prima da soldati libici e poi da quattro o cinque mercenari africani. Ieri abbiamo cercato di raccogliere qualche conferma a queste notizie in due ospedali di Bengasi dove sono arrivano molti dei feriti di guerra da Misurata e Ajdabiya. «Sappiano di stupri commessi (dalle truppe di Gheddafi) all’inizio della guerra ma non abbiamo raccolto alcuna denuncia in queste ultime settimane dalle donne giunte da Misrata, mentre Ajdabiyeh ormai è disabitata», ci ha detto il dottor Fathi Shibani, manager dell’Ospedale centrale di Bengasi. All’ospedale ginecologico «Jumoriyeh» (l’ex Ospedale Maggiore italiano) il dottor Abdel Hakim Dirmish, giunto sei giorni fa da Misurata, ci ha riferito di aver sentito da alcune persone di casi di stupri. «Mi hanno detto che soldati di Gheddafi sarebbero entrati in ville ad abitazioni e dopo aver immobilizzato gli uomini avrebbero violentato le donne», ha detto Dirmish sottolineando di non aver personalmente raccolto le testimonianze delle donne violentate. Da parte sua il direttore generale del «Jumoriyeh», il dottor Abdel Latif Gwel, ha rimarcato che fare chiarezza su questi casi non è facile perché le donne libiche preferiscono non denunciare le violenze sessuali subite «per non rovinare la loro reputazione».
Invece negli altri due ospedali di Bengasi, il «1.200» e il «Glaa» risultano due casi «da accertare» di vittime di bombe a grappolo (cluster bombs) a Misurata. Nei giorni scorsi Human Rights Watch aveva denunciato l’utilizzo di quest’arma letale da parte dell’esercito governativo, con grave pericolo per la popolazione civile. Accusa seccamente smentita dal figlio di Gheddafi, Seif al Islam, in una intervista al Washington Post. «Siamo sicuri di non aver commesso nessun crimine contro il nostro popolo», ha detto Seif al Islam più volte indicato negli anni passati come il futuro leader libico. «Vorremmo che gli americani inviassero una missione esplorativa per capire che cosa è successo in Libia, vogliamo che Human Rights Watch venga qui e veda esattamente quel che è successo…Non abbiamo paura della Corte Penale Internazionale dell’Aja (che ha accusato il colonnello di crimini di guerra,ndr), ha aggiunto. Il giovane Gheddafi ha spiegato che, per il regime, «il primo problema è sbarazzarsi dei terroristi» (i ribelli), in modo ad aprire la strada ad una soluzione evidentemente di natura politica. Proprio il presidente del Cnt, cioè dei ribelli, Mustafa Abdel Jalil, sarà oggi Roma dove vedrà il ministro degli esteri Franco Frattini, al quale chiederà l’invio immediato a Bengasi di armi e addestratori promessi dal governo Berlusconi.
da “il manifesto” del 19 aprile 2011
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Michele Giorgio – INVIATO A AJDABIYA
 
Sul fronte di Ajdabiya, città fantasma. Civili e migranti in trappola

 

Bab Gharbi è la porta occidentale di Ajdabiya. La caduta di questa città strategica per gli insorti, aprirebbe la strada alle truppe governative libiche verso Bengasi, distante solo 160 km. Ma la milizia dei ribelli oggi non è sulla difensiva, al contrario pare sul punto di lanciarsi all’attacco. «Siamo pronti – ci dice Abdul Karim, nome di battaglia di un capitano degli insorti – sappiamo che i soldati (del colonnello libico Muammar ndr) Gheddafi sono là davanti e non ci fanno paura, siamo pronti a morire», spiega Abdul Karim. Un sorriso di soddisfazione sbuca all’improvviso tra i baffi e la lunga barba di alcuni dei combattenti.
Il sole scotta già alle 10 ma a far salire rapidamente la temperatura sono i motori accesi e i tubi di scarico delle molte decine di pick-up trasformati in veicoli d’assalto con lanciarazzi e mitragliatrici pesanti montate nell’ampio bagagliaio scoperto. Con il passare dei minuti giungono altri automezzi, tutti dotati di tubi di lancio dei razzi e di bandiere al vento della «tawra», la «rivoluzione del 17 febbraio», l’insurrezione contro Gheddafi poi sfociata in una guerra civile. Si schierano dietro, pronti a sparare per coprire l’avanzata a tutta velocità dei pick-up. «Aspettiamo solo l’ordine di avanzare, nel frattempo ammassiamo armi e truppe», aggiunge Abdel Karim lamentandosi per la mancanza di pezzi di artiglieria. In giro non si vedono in verità neppure i lanciarazzi anticarro di fabbricazione francese che il Qatar – sponsor molto interessato degli insorti – si è detto pronto a fornire al Consiglio nazionale transitorio (Cnt). Ma alcuni dei miliziani indossano dei giubbotti antiproiettile nuovi di zecca, forse sono i «body armour» di produzione britannica, che Londra aveva promesso qualche giorno fa.
Alle spalle ad un paio di chilometri c’è Ajdabiya, ormai una città-fantasma. Attraversandola non abbiamo visto alcun abitante in strada. La popolazione è fuggita a Bengasi e nelle altre città della costa sotto il controllo del Cnt. Davanti c’è il fronte di guerra. Riecheggiano in lontananza occasionali colpi di artiglieria, quella delle truppe governative che provano a scongiurare un possibile attacco dei ribelli decisi a raggiungere il centro petrolifero di Brega, ad 80 km, approfittando dei raid degli aerei della Nato contro carri armati e blindati in possesso degli avversari. I comandanti ribelli sanno inoltre che Gheddafi ha dovuto richiamare parte del truppe schierate davanti ad Ajdabiya per inviarle a sostegno dell’assedio a Misurata, l’ultima città rimasta parzialmente nelle mani degli insorti nella Libia occidentale. «Conquisteremo Brega nel giro di qualche ora», ha annunciato il comandante degli insorti, Abdel Fattah Younes, che solo due mesi fa era un fedelissimo di Gheddafi. Ma forse l’obiettivo vero è quello di recuperare altro terreno, senza spingersi fino a Brega, almeno per il momento. La superiore potenza di fuoco dell’esercito governativo – che ieri avrebbe fatto sei morti – non incoraggia offensive su larga scala e i ribelli, nonostante gli «aiuti» che ricevono dai raid aerei della Nato – ieri ha di nuovo bombardato Sirte – non sono in grado di prendere il sopravvento.
Riconquistare Misurata per Gheddafi sarebbe un successo non solo simbolico ma anche militare, particolarmente importante. Gli permetterebbe di spostare truppe, carri armati e artiglieria verso Brega e Ajdabiya, e di mettere sotto pressione gli insorti sulla strada che porta a Bengasi. E vorrebbe farlo prima dell’arrivo degli armamenti che i governi occidentali e il Qatar stanno promettendo al Cnt. Per questo le sue truppe stanno chiudendo in una morsa Misurata e i combattimenti con gli insorti si stanno facendo particolarmente cruenti in queste ultime ore.
E a pagarne le conseguenze sono soprattutto i civili. Venerdì razzi avrebbero colpito anche persone in fila per il pane, uccidendo almeno 16 persone. «La gente qui è in trappola…questo è un posto molto difficile in cui stare, la popolazione non ha alcuna possibilità di andare in un luogo veramente sicuro», ha spiegato Donatella Rovera, di Amnesty International, che da giorni segue gli sviluppi a Misurata da una piccola località alle porte della città. Gli abitanti della città ora devono guardarsi anche dalle bombe a grappolo che secondo il New York Times sarebbero state sganciate su alcuni quartieri della città da colpi sparati dall’artiglieria di Gheddafi. L’organizzazione umanitaria Human Rights Watch ha riferito che alcuni suoi operatori sul campo, nella notte tra giovedi e venerdi, hanno visto cadere almeno tre ordigni «cluster» sul quartiere di El Shawahda e che altri due hanno colpito altre zone della città. Da Tripoli un portavoce del governo ha smentito seccamente la notizia. «Non utilizzeremmo mai armi simili contro le popolazioni libiche – ha detto Ibrahim Musa – oltretutto il mondo ci sta guardando e non potremmo mai fare una cosa del genere». Le bombe a grappolo (cluster bombs) sono vietate dalle leggi internazionali. Negli ultimi anni ad usarle massicciamente in Medio Oriente è stato Israele, in particolare durante l’offensiva militare del 2006 contro il Libano.
Prosegue intanto l’evacuazione dei migranti dalla città assediata. Una nave dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni venerdì è riuscita a far salire a bordo un migliaio di persone, in maggioranza egiziani, e in serata è arrivata a Bengasi. Un battello di Medici senza frontiere invece ieri è riuscito ad imbarcare alcune decine di feriti gravi, a due settimane dalla prima evacuazione, sempre via nave, grazie alla quale 71 feriti erano stati trasferiti da Misurata in Tunisia e sei tonnellate di materiale medico erano state donate all’ospedale di Misurata.
«Con gli ultimi pesanti bombardamenti, la situazione sta peggiorando e gli ospedali sono costretti a dimettere i pazienti prima che le cure siano completate per poter dare assistenza ai nuovi feriti», ha riferito Morten Rostrup, un medico di Msf. Intanto l’Italia stringe ulteriormente i rapporti con il Cnt di Bengasi. Il presidente dell’esecutivo ribelle, Mustafa Abdul Jalil, sarà in visita martedì a Roma dove, con ogni probabilità, chiederà armi, assistenza militare e riaffermerà il rispetto del Cnt degli accordi italo-libici firmati da Gheddafi e Silvio Berlusconi, inclusi i capitoli riguardanti la lotta senza quartiere ai migranti che si imbarcano per l’Italia. La cooperazione tra Cnt libico, Italia e Francia va oltre la richiesta di fornire armi ai ribelli, e Roma e Parigi «hanno detto sì all’invio di addestratori sul campo», ha rivelato ieri Abdel Jalil.
da “il manifesto” del 17 aprile 2011
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