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Giappone. A nord si scava tra i ricordi

ICHINOSEKI

Una signora anziana cammina tra le macerie canticchiando una vecchia canzone. Piegata su se stessa, cerca frammenti della sua casa a nord del paesino di Kesennuma. Poi sale le scale che una volta l’avrebbero portata nella sua camera da letto al secondo piano. Arriva in cima e della sua stanza è rimasto solo il pavimento. Intorno rottami: macchine accartocciate, bassi edifici ridotti allo scheletro, oggetti di vita quotidiana, pentole, cd e pelouche. A due mesi dallo tsunami che ha spazzato via interi villaggi lungo la costa nordorientale del Giappone, 25 milioni di tonnellate di detriti rimangono sparsi lungo il litorale delle prefetture di Iwate, Miyagi e Fukushima.

Secondo il ministero dell’ambiente ci vorranno almeno tre anni per rimuoverli completamente ma le stime non includono i detriti radioattivi vicino al la centrale e le centinaia di imbarcazioni disseminate lungo quelli che una volta erano campi di riso e che l’onda violenta dello tsunami, risalendo lungo i fiumi, ha trasformato in distese di fango e frantumi.

A un kilometro dalla costa, campeg gia una nave dallo scafo rosso e blu. Invece delle onde si adagia su un letto di asfalto, nel mezzo della discarica di rottami ammucchiati ordinatamente dai militari. «Quella nave ha salvato una vita», racconta il capo della cooperativa forestale di Kesennuma, ritornato in cerca di fotografie nel luogo dove una volta sorgeva la sua villetta. «La moglie del panettiere, portata via dalle onde, è riuscita ad aggrapparsi alla ringhiera della nave. Ha passato la notte dell’11 marzo sul ponte mentre del marito non se ne è più saputo niente»

Man mano che si fa giorno quella che sembra solo una discarica si anima, mentre nell’aria ristagna l’odore di pesce marcio proveniente forse dai magazzini di sardine e tonni – prodotti tipici della regione – scardinati e rivoltati. In lontananza si sente il rumore delle ruspe che scavano e le voci degli ex abitanti del posto che vagabondano tentando di riconoscere quello che era il loro quartiere.

Tra gli ammassi di detriti si aggirano gli ufficiali delle forze di autodifesa. Mascherina sulla bocca e bastone in mano, procedono a squadre di cinque in cerca di cadaveri ancora sepolti. Perlustrano un’area, una macchina, un edificio. Poi con la bomboletta spray rossa indicano il risultato della loro ricerca. Cr per «clear», l’edificio è stato ispezionato e non è stato trovato nessuno. Ok, ispezionato. Se c’è un triangolo, c’era qualcuno ma è stato rimosso. «C’è una gran confusione – dice un capocantiere – Se le indagini sono svolte dalla polizia si trovano certi simboli, invece i militari ne usano altri».

Si cercano ancora i corpi

Sono ancora 10mila i dispersi, mentre è salito a quasi 15mila il numero di morti accertati. Altre 112mila persone, invece, vivono nei 2.400 centri d’accoglienza in attesa di trasferirsi nelle case temporanee. La precedenza viene data agli anziani e alle persone disabili; per le altre si estrae a sorte. A differenza di quanto accaduto dopo il terremoto di Kobe del 1995, questa volta il governo ha promesso di prestare ascolto alle richieste delle vittime cercando di dar loro case vicino a parenti e amici per evitare ulteriore stress e disagio.

L’impresa non è facile. In molti casi è fisicamente impossibile ricostruire abitazioni nelle zone devastate e laddove sono iniziati i lavori per gli alloggi temporanei per le 62 mila famiglie colpite dal sisma e dallo tsunami, vanno a rilento. Secondo alcune delle ultime stime, solo 4.337 famiglie hanno potuto inaugurare la loro nuova casa. Il governo intanto continua a sollecitare le amministrazioni locali a tener conto della comunità di provenienza dei rifugiati per evitare un aumento delle «morti solitarie», perché molte delle vittime anziane sono rimaste sole.

«Non ho nessuno ora e mia moglie non so che fine abbia fatto», ci dice un signore di ottanta anni incontrato nel centro di accoglienza della protezione civile di Kesennuma. Non ci vuole rivelare il suo nome ma ci racconta la sua storia con la cadenza tipica del dialetto di Miyagi. Viveva in una casetta lungo il fiume e, quel venerdì, stava per andare a riposare dopo pranzo, quando alla radio annunciarono che uno tsunami si stava per abbattere sulle coste del paese. «L’onda ha risalito il fiume e ha spaccato i vetri delle finestre. Mia moglie stava già dormendo, non ho fatto in tempo ad avvertirla. Le ho detto “scusa!” e sono corso al piano di sopra, zuppo, in attesa dei soccorsi che sono arrivati la mattina dopo. Da quel momento non l’ho più rivista».

Lungo il fiume dove si affacciava la sua casa, ora si allineano i ciliegi che al nord fioriscono a maggio per via del cli ma più rigido. All’ombra degli alberi dai petali rosa, c’è un panorama di detriti senza forma.

Proseguendo verso sud lungo la stra da che porta a Rikuzentakata si alterna no paesaggi di devastazione e normali tà. Verso l’interno, montagne verdi e contadini al lavoro nei campi, poi, alla fine della curva, un deserto di polvere, tronchi di albero sradicati e pezzi di abitazioni. Oltre la spianata si estende l’oceano Pacifico, dove scaglie di barriere protettive ancora si intravedono tra le onde. Un vento fortissimo proveniente dal mare agita i cartelloni divelti e si insinua nei corridoi del Capital Hotel 1000, l’unico edificio ad affacciarsi sul mare che è rimasto riconoscibile. Si sente solo il rumore dei camion militari che passano, delle ruspe e di qualche volontario.

Durante i quattro giorni di festa nazionale dell’inizio di maggio e per il ponte precedente, migliaia di persone hanno deciso di usare le vacanze della golden week per aiutare spalando fango o ripulendo le strade dei paesi che si affacciano sulla costa. Per tutta la settimana festiva file lunghissime di macchine si sono formate sulle autostrade che portano al nord. Mentre poco più a sud, intorno alla zona dove sorge la centrale di Fukushima, il traffico di veicoli è quasi assente. Anche molti benzinai e ristoranti sono ormai chiusi. In quelli aperti, però, le persone non sembrano più far caso al fatto che a poche decine di kilometri i reattori nucleari della centrale ancora non sono pienamente sotto controllo. Nessuno usa più le mascherine né protezioni di alcun tipo. Solo i militari indossano la tuta bianca di protezione prima di valicare la zona a rischio, a 20 kilometri dall’impianto. La situazione a Fukushima Daiichi continua a essere instabile.

Un nuovo sistema di raffreddamento è stato da poco predisposto per il reattore uno e la Tepco ha annunciato che la stessa misura sarà applicata entro la fine di luglio anche ai reattori 2 e 3. Ma è quest’ultimo reattore, contenente il carburante mox, a preoccupare ancora, dato che proprio negli ultimi giorni è stato registrato un aumento della temperatura.

Nel resto del Giappone, a oggi, rimangono attivi in tutto ventuno reattori. Gli altri 34 sono stati spenti per manutenzione o per misure cautelative a seguito del sisma.

Tokyo spegne i reattori

E mentre a Tokyo continua il dibattito sul futuro delle politiche energetiche del Paese, dopo insistenti richieste da parte di parlamentari, attivisti e scienziati, il primo ministro Naoto Kan e la società Chubu Electric Power Co. hanno finalmente raggiunto un accordo per interrompere per sempre il funzionamento di tutti i reattori della centrale nucleare di Hamaoka, a circa 200 kilometri a sudovest di Tokyo. La centrale è situata su una delle faglie considerate più pericolose dai sismologi, i quali hanno da tempo previsto – con una probabilità del 90% l’arrivo di un terremoto di magnitudo 8 nei prossimi trent’anni.

Ma Katsuhiko Ishibashi, professore emerito dell’università di Kobe, autore dell’espressione genpatsu shinsai (disastro sismico e nucleare), considera l’intervento del governo insufficiente e tardivo. Non solo il semplice spegnimento dei reattori non ne garantisce l’invulnerabilità in caso di un eventuale tsunami superiore agli 8 metri ma ha ribadito che, se le misure antisismiche fossero state adottate già nel 2006, quando fece appello al governo, «avremmo potuto prevenire Fukushima».

Fukushima, a casa per poche ore

Intanto, da qualche giorno alle famiglie che risiedevano nella zona intorno all’impianto di Fukushima Daiichi è stato dato il permesso di rientrare temporaneamente in casa. Ogni giorno i pullman passano a prendere nei centri di accoglienza i rifugiati. Ogni giorno un gruppo di villaggi diversi. Una persona per famiglia ha il compito di an dare a recuperare gli effetti personali ma ha solo due ore di tempo, perché la quantità di radiazioni è troppo elevata. Così, a ciascuno è assegnata una tuta protettiva e una busta di 70 centimetri quadrati. Cani e gatti però non possono essere portati via. Ci penserà la prefettura a raccoglierli e a restituirli ai padroni in un secondo momento.

 

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«Rivedere il piano energetico». Kan spegne l’atomo

Pio D’Emilia

Bravo Kan. L’accusa più ri corrente che un po’ tutti portano al premier giapponese (peraltro soprannominato) «Irakan» (Kan il collerico) è quella di non di non sapersi imporre. E occorre dire che da quando è di ventato primo ministro questa lacuna è emersa in modo particolarmente evidente e grave. Tant’è che prima della tripla tragedia (ter remoto, tsunami, emergenza nucleare) il suo indice di gradimento era precipitato al 18%, tra i più bassi nella storia del dopoguerra, e se non fosse stato per la furia della natura e l’idiozia di taluni colleghi di partito (a casa Maehara, l’ex ministro degli Esteri dimessosi codardamente dal governo per essere pronto a guidarne uno lui, ai primi di marzo si stava già festeggiando) si sarebbe dimesso.

Ma è arrivata la catastrofe e Naoto Kan, che la stampa nazionale (e quella internazionale che non può non esserne influenzata) non sopporta perché aprendo le conferenze stampa ufficiali ai free lance e ai nuovi media on line, ha tolto ai grandi quotidiani e ai grandi network televisivi il monopolio dell’informazione «istituzionale», ha cercato di gestire al meglio la situazione. Ci ha messo un po’ di tempo, due mesi, ma dopo aver fatto finta di stare al gioco, litigando di notte e inchinandosi di giorno, cercando fino all’ultimo un impossibile compromesso con una opposizione miope nei contenuti e becera nei modi e accettando perfino di indossare la ridicola giacchetta da capostazione che nella semiotica locale vorrebbe si gnificare grande impegno e mobilitazione, è finalmente uscito allo scoperto e ha cominciato a menar colpi. E senza dir nulla a nessuno, tranne alla moglie (che da sempre lo appoggia, non senza criticarlo aspramente) e ai suoi più stretti collaboratori, si è ricordato di essere il premier del Giappone. Che se ha il potere di mandare a tutti a casa, sciogliendo la Camera, avrà anche il potere di chiedere spazio in tv e «suggerire», prima di ordinare con decreto, la chiusura di una o più centrali. I dirigenti della centrale nucleare di Hamaoka, 200 km a sudovest di Tokyo, apparentemente in ottima forma ma considerata da tutti, per la sua collocazione geografica, la più pericolosa al mondo, non volevano crederci. Eppure è così. «Basta con le emergenze. Chiedo che la vostra centrale venga chiusa immediatamente, in via preventiva». Una semplice richiesta, anche se del premier e lanciata pubblicamente, in diretta tv. Nel giro di un paio di giorni il consiglio di amministrazione si è adeguato. E ha chiuso la centrale. Ma Kan non si è fermato. Ieri è tornato sull’argomento, e ha volato alto. Non perché ha annunciato di rinunciare allo stipendio di premier (14 mila euro l’anno) ma perché ha avuto il coraggio di chiedere scusa al popolo giapponese per la scellerata scelta nucleare dei suoi impotenti predecessori (la scelta risale alla fine degli anni ’50, quando i politici giappone si erano totalmente manovrati da gli Usa) e per essersi impegnato a ripartire da zero per quanto riguarda la politica energetica nazionale. Non è l’uscita dal nucleare, ma ci si avvicina.

Intanto è stato congelato il programma di potenziamento che prevedeva la costruzione di nuove centrali entro il 2050, portando la percentuale della produzione nucleare dall’attuale 27% a oltre il 50%. A conti fatti, degli attuali 55 reattori esistenti, solo 21 sono attualmente in funzione. Con qualche sforzo in più, e senza aspettare un altro tragico tsunami, si potrebbero chiudere tutti, uno dopo l’altro, destinando le risorse finanziarie allo sviluppo delle nuove energie rinnovabili. Forza Kan, il Giappone se lo può permettere, e i giapponesi se lo meritano.

 

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I signori del nucleare s’inchinano «Aiuti di stato» per non fallire

Luigi Vercotti

Per Masataka Shimizu, presidente dell’azienda elettrica giapponese Tepco, l’ingresso nella residenza ufficiale del primo ministro ha il valore di un passaggio sotto le forche caudine.

Qui si è tenuto ieri l’incontro tra i vertici di Tepco, il segretario di gabinetto Yukio Edano e il ministro dell’Economia Banri Kaieda. Con un profondo inchino, Shimizu ha consegnato nelle mani di quest’ultimo una busta contenente una richiesta ufficiale di aiuto economi co per fare fronte agli immensi costi derivanti dalle riparazioni al sito di Fukushima Daiichi e ai risarcimenti che l’azienda dovrà versare agli abitanti dell’area. Per Tepco l’inchino di Shimizu ha il valore di una capitolazione: i «signori dell’atomo» sono in questo modo costretti ad accettare le condizioni poste dal governo su tariffe e futuri sviluppi della rete energetica.

È la prima volta che l’azienda si inchina di fronte al potere politico. Grazie a una fitta rete di contatti, Tepco ha saputo fino a oggi destreggiarsi tra scandali di varia entità mediante rimpasti «cosmetici del proprio gruppo dirigente.

Così è stato nel 2002 quando vennero a galla 29 casi di incidenti alle strutture di tre centrali nucleari e prontamente insabbiati dalla dirigenza. Così è stato anche per l’incidente alla centrale di Kashiwazaki, da molti visto come un omen di quanto accaduto a Fukushima.

La rete di Tepco ha una diffusione capillare che si estende dalle aree rurali ove sorgono le centrali ai palazzi del potere di Tokyo. Fin dagli anni ’60 l’azienda ha saputo ingraziarsi le amministrazioni locali, affiancando alla costruzione dei reattori progetti infrastrutturali come strade, parchi e impianti sportivi e promettendo la creazione di migliaia di posti di lavoro. Le forti resistenze della popolazione locale – in parte ancora traumatizzata dal ricordo di Hiroshima – hanno ceduto così il passo a un’accondiscendente indifferenza.

Fino all’11 marzo di quest’anno il «meccanismo del consenso» ha funzionato alla perfezione. Poi qualcosa si è rotto. Una rabbia lungamente repressa si è impossessata degli abitanti dell’area di Fukushima. Si parla di dipendenti di Tepco schiaffeggiati in pubblico, mentre nei forum della rete i pochi sostenitori dell’azienda subiscono autentici linciaggi mediatici.

Nell’avvelenato clima di questi giorni, i dipendenti di Tepco fanno sempre più quadrato intorno all’azienda. Nonostante le conclamate deficienze nel sistema di profilassi antiradiazioni, l’annuncia to taglio del 20 per cento dei salari e l’evidente crisi della leadership, i cosiddetti Tepcoman non abbandonano le proprie posizioni.

«Tepco ha da sempre garantito un impiego sicuro, salari molto alti e un’ottima previdenza sociale», spiega il giornalista Yoshino Toyama. Molti dipendenti sono inoltre letteralmente «cresciuti» tra reattori e turbine: Tepco gestisce in fatti un apparato educativo che accompagna i dipendenti dalle scuole superiori fino alla pensione.

Il meccanismo dell’outsourcing e l’elevata presenza di operai di aziende appaltatrici nelle squadre di controllo delle centrali si sta tuttavia facendo sentire. Sono spesso loro a parlare con la stampa e a divulgare notizie riguardanti l’inefficienza dei sistemi di prevenzione in uso nelle strutture. Il «veterano» Kiyokazu Araki, la cui vita è stata distrutta dal cataclisma e dall’evacuazione forzata, oggi racconta: «Mi hanno sempre detto che il nucleare era assolutamente sicuro; ora la mia fiducia è in pezzi».

 

* da “il manifesto” dell’11 maggio 2011

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