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Siria. Cannonate sulla città di Homs. Tre morti in un villaggio del sud

Un testimone ha denunciato che in queste ore “Homs è scossa dal suono delle esplosioni del bombardamento da parte di carri armati e mitragliatrici pesanti”, ha detto l’attivista Najati Tayrara. Homs è la terza città della Siria e Bab Amro è un quartiere residenziale. Nei giorni scorsi Homs è stata una delle città siriane in cui si è concentrata la repressione delle proteste contro il presidente Bashar al-Assad, esplose a metà marzo. Da allora, secondo gli attivisti delle organizzazioni per i diritti umani siriane, sarebbero oltre 800 i civili uccisi.

Le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro i manifestanti anti-governativi nella città di Daraa, nel sud del Paese, uccidendo almeno tre persone. Manifestazioni si sono tenute nei villaggi del sud della Siria nonostante la pesante presenza della sicurezza, riferiscono oggi dei testimoni. I tre manifestanti sono invece stati uccisi ieri sera nel villaggio di Jassem.

 

Le forze di sicurezza siriane hanno intanto rilasciato 300 persone arrestate a Banias la scorsa settimana. Lo riferisce l’Osservatorio siriano per i diritti umani aggiungendo che nella città portuale, fino ad ora isolata, sono state riattivate le linee di telecomunicazione e l’erogazione di elettricità ma che i carri armati rimangono dispiegati lungo le strade principali. Lo stesso Osservatorio precisa poi che altre 200 persone rimangono ancora in stato di arresto.

L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, Catherine Ashton, ha difeso oggi la decisione dei 27 di non includere il presidente siriano nella lista delle personalità del regime colpite dalle sanzioni, ma ha avvertito Bashar Assad che il tempo sta scadendo per cambiare politica e mettere fine alla repressione. L’Alto rappresentante dell’Unione Europea ha poi ricordato il dibattito acceso dei giorni scorsi a Bruxelles sulle sanzioni contro la Siria, tra chi voleva punire anche Assad e chi ha offerto al leader «una finestra che si sta chiudendo per cambiare rotta e fare la differenza». Dinanzi alla repressione che non si arresta, una revisione delle sanzioni entrate in vigore ieri potrebbe avvenire già entro la fine della settimana.  

 

 

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Sulle molte domande relative alla situazione in Siria, pubblichiamo qui di seguito una pertinente riflessione di Lorenzo Trombetta della redazione di Limes, rivista di geopolitica.

 

In Siria scompare il fatto e domina l’opinione


Quel che sta accadendo in Siria non è verificabile sul terreno. O si crede ai media governativi di Damasco o si crede ai testimoni oculari citati dalle tv panarabe satellitari e agli attivisti per i diritti umani.

A oltre un mese e mezzo dallo scoppio della “crisi”, con quasi tutti i giornalisti stranieri espulsi dal paese e con i pochi impossibilitati ad allontanarsi dal centro di Damasco, redarre la cronaca giornaliera significa assemblare testimonianze, dichiarazioni, comunicati e raccontare le immagini di video amatoriali, senza poter di fatto verificare l’esattezza dei racconti e, in molti casi, l’autenticità delle stesse fonti.

I fatti sono così declassati a opinioni. Tanto che chi scrive la cronaca usando per lo più le informazioni provenienti da attivisti e testimoni oculari viene tacciato di essere un fiancheggiatore del complotto straniero (“saudita”, “americano”, “israeliano”) e chi invece cita per lo più la tv di Stato di Damasco e l’agenzia ufficiale Sana diventa automaticamente un sostenitore del fronte siro-iraniano.

C’è anche chi tenta di non cadere in questa trappola narrativa e, pur di non essere etichettato in maniera ideologica, sceglie di citare tutti i tipi di fonti, sperando che sia poi il famoso lettore a farsi una propria opinione. Il gioco, a questo punto, si fa più sottile, perché anche il cronista più onesto ha comunque una sua opinione su come si stanno svolgendo i fatti. E li racconta seguendo un particolare ordine discorsivo teso, di fatto, a indurre il famoso lettore a sposare quella o quell’altra tesi.

Tutto ciò non vale ovviamente solo per il caso siriano, ma per ogni scenario dove è pressoché impossibile verificare a lungo i fatti sul terreno. Eppure la questione siriana, pur non offrendo “fatti”, presenta ormai ogni giorno di più interessanti spunti per riaprire il dibattito sull’antico tema del rapporto tra percezione e narrazione degli eventi e premesse politico-ideologiche del narrante.

Quel pugno di osservatori italiani che, all’estero e in Italia, tentano di raccontare quel che sta accadendo in Siria dalla metà del marzo scorso si possono dividere in modo sommario in tre diversi gruppi: quelli che credono che le proteste nascano spontaneamente dagli abitanti delle varie regioni del paese contro un regime dittatoriale al potere da quasi mezzo secolo; quelli che credono invece si tratti di manifestazioni eterodirette dall’estero per destabilizzare il regime degli al-Asad in funzione antiraniana e, quindi, pro-israeliana; quelli che ritengono che le proteste siano sì legittime e spontanee “ma anche”… cavalcate dalle potenze filo-occidentali.

A mio avviso, il modo di percepire e, in certi casi, di narrare la “crisi” siriana di alcuni di questi osservatori dipende dal loro preesistente schema di lettura degli eventi regionali, basato spesso su sedimentate impostazioni politiche, se non addirittura su convinzioni ideologiche che non hanno molto a che fare con le realtà arabe contemporanee.

 

“Sono manifestazioni popolari spontanee per la libertà portate avanti da dissidenti e attivisti”.

 

Chi sostiene i manifestanti siriani e crede che essi siano davvero pacifici dà fiducia al movimento di liberazione attivo e presente ormai in molti paesi arabi. Liberazione prima di tutto da regimi oppressivi, criminali e mafiosi, spesso familiari e tribali, che per decenni hanno usato la retorica della “liberazione dall’occupazione sionista” per legittimare il proprio potere.

Chi sostiene questi manifestanti ha fiducia anche nei giovani, musulmani per lo più ma non salafiti, che aspirano a esser cittadini di Stati di diritto e non sudditi di emirati islamici o di repubbliche ereditarie.

Chi sostiene questi manifestanti crede agli attivisti umanitari e ai testimoni oculari perché li ritiene non solo le uniche fonti attendibili in assenza di altri giornalisti ma anche patrioti che genuinamente servono la causa del loro paese.

Chi sostiene questi manifestanti crede alla versione secondo cui gli shabbiha (le squadre di alawiti lealisti armati) esistono davvero e sono loro a seminare terrore nei distretti a maggioranza sunnita, a bordo di jeep con i vetri oscurati come si vede in molti video amatoriali, soffiando sotto la brace della latente tensione inter-confessionale.

Chi sostiene questi manifestanti dà infine credito alle testimonianze secondo cui l’Iran, da trentuno anni alleato della Siria, sosterrebbe il regime di Damasco nella repressione con istruttori e apparecchiature.

Chi sostiene questi manifestanti non considera strano che tutti i dissidenti e gli attivisti parlino alle tv panarabe dall’estero perché in Siria li attenderebbero galera e torture, e che da Damasco gli unici a parlare siano invece opinionisti e giornalisti fedeli al regime per interesse, opportunità o genuina convinzione.

Chi sostiene questi manifestanti considera affidabili, con un margine di dubbio variabile, i numerosi video amatoriali che circolano su Internet. Li considera affidabili non solo perché, magari, riconosce alcune piazze e strade di città siriane dove è stato in passato. Ma anche perché è portato più facilmente a credere, per esperienza diretta con le autorità siriane, che “le bottiglie piene di sangue vero” usate – secondo l’agenzia ufficiale Sana – dai dimostranti per inscenare ferimenti e uccisioni tra le loro file siano usate piuttosto dagli agenti della polizia segreta per inscenare ferimenti e uccisioni tra le loro file.

 

“E’ una rivolta fomentata da Arabia Saudita, Usa e Israele per indebolire la Resistenza anti-sionista”

 

Chi ritiene invece che queste proteste siano ispirate, finanziate e dirette dall’estero è convinto che l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti e Israele stiano attuando un piano, preparato da decenni anni, per far cadere il regime siriano alleato dell’Iran e sostenitore degli Hezbollah libanesi e di Hamas nei Territori palestinesi.

I richiami alla “libertà” e alla “democrazia” sono – secondo questa categoria di osservatori – soltanto dei cavalli di troia usati da attivisti, dissidenti e oppositori (tutti o quasi “agenti pagati dall’estero”) per dividere la Siria su base comunitaria e realizzare il progetto sionista di smembramento del Medio Oriente in tanti staterelli etnico-confessionali (come già tentò la Francia negli anni Venti).

Chi ritiene che queste proteste siano dirette dall’estero è tra i primi a ricordare i documenti diplomatici Usa, di recente diffusi da Wikileaks con un tempismo degno di nota, sul finanziamento statunitense a oppositori siriani all’estero.

Chi sostiene questa tesi è anche tra i primi a metter in guardia dal pericolo rappresentato dai Fratelli musulmani e, in generale, dal fondamentalismo di matrice sunnita, e a sottolineare i timori per le sorti della prospera comunità cristiana di Siria, da decenni protetta dagli al-Asad e domani chissà.

Chi ritiene che queste proteste siano dirette dall’estero è intimamente preoccupato dalla presenza sul territorio siriano di bande di criminali e terroristi che, per la prima volta dopo almeno vent’anni, appaiono in ogni dove e sparano all’impazzata contro civili, poliziotti e soldati.

 

La terza via del “ma anche”: un colpo al cerchio e uno alla botte

 

Chi sostiene invece la teoria del “ma anche” lo fa perché non riesce proprio a vedere come agenti foraggiati dai sauditi e dagli israeliani le migliaia di siriani che da settimane offrono il petto alle pallottole sparate da chissà chi. Eppure, questi osservatori si interrogano sul perché le mobilitazioni più significative si siano finora verificate in centri sunniti vicini ai confini giordano (Daraa) e libanese (Homs, Banias).

In entrambi i paesi – affermano – il sunnismo politico di matrice saudita è presente e radicato. Forse – pensano – le potenze straniere stanno cavalcando una protesta popolare cominciata in modo spontaneo. Magari – aggiungono – accanto ai manifestanti pacifici ci sono anche bande di armati, infiltratisi dalla Giordania e dal Libano e che attaccano i militari, le forze di sicurezza e i civili per seminare disordine e sfiducia nelle istituzioni.

Alcuni di questi osservatori sono ancora convinti che il presidente al-Asad sia un genuino riformatore ma che egli sia circondato da un branco di ufficiali dei servizi di sicurezza assetati di potere e pronti a tutto pur di sopravvivere. Per loro, il sorridente raìs di Damasco è intrappolato in una logica che lui stesso ripudia. Questi osservatori credono al dottor Bashar quando, in una recente intervista, aveva affermato di aver scelto la specializzazione in oftalmologia perché non sopporta “la vista del sangue”.

Questi osservatori credono infine che le richieste di libertà e riforme politiche dei siriani debbano sì essere ascoltate e soddisfatte dalle autorità, ma anche che questo processo di cambiamento radicale debba esser affrontato senza mettere a rischio la stabilità interna, per risparmiare la Siria da bagni di sangue più drammatici e la regione da un terremoto che avrebbe delle conseguenze disastrose, sia in termini di sicurezza per le nostre frontiere sia per i nostri interessi economico-commerciali (l’Italia è il primo partner europeo della Siria, e tra i primi al mondo).

 

In attesa dei fatti, qualche domanda

 

Dato che nessuno degli osservatori ha le prove per dimostrare a pieno la propria teoria, tutte e tre le versioni sono confutabili con relativa facilità. Come si diceva all’inizio, non sono fatti, sono solo opinioni.

Pur appartenendo alla prima categoria di osservatori, continuo a confrontarmi ogni giorno con le altre diverse posizioni. E sono serenamente pronto a ricredermi. Nell’attesa, con la esplicita intenzione di stimolare un dibattito che coinvolga il maggior numero di persone, siano essi semplici lettori o addetti ai lavori, rivolgo qui di seguito, a me stesso e a voi, una serie di domande. Alcune retoriche, altre meno.

  1. Perché quando al Cairo, tra gennaio e febbraio, squadre di lealisti armati (baltaghie), spesso criminali comuni liberati dalle carceri dal regime per seminare terrore e disordine, hanno aggredito i manifestanti di piazza Tahrir e i giornalisti che tentavano di raccontare gli eventi, nessuno ha gridato al complotto straniero, accusando paesi vicini o potenze straniere di esser dietro alle violenze? Ovvero, perché tutti hanno dato per buona la versione che quelle squadracce fossero inviate dal regime e non invece “infiltrati” dell’Iran per destabilizzare il regime di Mubarak?

 

2) Se la Siria, per decenni fortino di stabilità e sicurezza persino durante le profonde crisi con Usa e Arabia Saudita, è ora improvvisamente diventata teatro di scorribande di gruppi armati di salafiti filo-sauditi e filo-americani, perché i media di regime non mostrano i membri di queste numerose cellule terroristiche e si sono finora limitate a mostrare le poco credibili confessioni di appartenenti a tre presunti gruppi armati?

3) Perché le autorità siriane hanno espulso i giornalisti occidentali? Anche loro potrebbero esser testimoni del complotto e raccontarlo al mondo. Cosa non devono vedere e raccontare i giornalisti stranieri? Se li si accusa di essere agenti del complotto, non è certo espellendoli che li si mette a tacere. Così facendo, invece, privandoli della capacità di verificare sul terreno le diverse narrazioni, si offre loro la possibilità di giustificare la presunta attendibilità di fonti alternative come testimoni oculari e attivisti per i diritti umani.

4) Perché i media di regime non mostrano le immagini dell’abbattimento delle numerose statue dell’ex presidente Hafiz al-Asad e del suo defunto figlio Basil? Oppure le immagini del deturpamento delle foto del presidente Bashar? Se questi oltraggi ai simboli del potere sono opera di bande armate di terroristi, foraggiati dall’estero e che niente hanno a che fare con i manifestanti, non dovrebbero scuotere l’incrollabile fiducia del popolo siriano negli al-Asad e nel partito Baath.

5) Il 25 aprile scorso era la data entro cui la commissione d’inchiesta sugli eventi di Daraa (dal 18 marzo) doveva presentare le sue conclusioni e renderle pubbliche all’opinione pubblica. Qualcuno degli osservatori ha notizia del risultato delle indagini?

6) Se fosse un complotto ordito dall’estero, perché gli Stati Uniti indicano ancora Bashar al-Asad come possibile uomo delle riforme? E perché da Israele da quasi due mesi non si è levata nessuna voce ufficiale che chieda una punizione per il “satrapo di Damasco”?

7) I sostenitori della seconda teoria (il complotto contro Iran e Siria) in questi giorni sottolineano il diverso atteggiamento di Unione Europea e Stati Uniti nei confronti del regime siriano e di quello del Bahrain. Il primo è stato colpito da sanzioni, anche se blande e del tutto inefficaci sul piano pratico, mentre il secondo è stato soltanto invitato verbalmente a usare moderazione durante la dura repressione di febbraio. Giusta osservazione, ma se vale la teoria che il regime siriano è colpito dal complotto sionista-americano-saudita in funzione anti-Teheran (anche anti-sciita?), la stessa teoria vale anche per il Bahrain, dove – sempre secondo i complottisti – i manifestanti di Manama non erano semplici dimostranti pacifici bensì prezzolati agenti del complotto iraniano contro l’Arabia Saudita. È così?

8) Leggo da diverse fonti di parte: “l’opposizione siriana (sic!) accusa miliziani di Hezbollah di partecipare alla repressione”; “Per il notiziario di al-Manar, la tv di Hezbollah, l’unica repressione in atto è in Bahrain”. Perché il “pericolo islamista” da una parte e la “fitna” (divisione confessionale) dall’altra sono evocati da chiunque difenda, all’interno o all’esterno, un potere oppressivo?

 

A mo’ di esempio, per sostenere la tesi che gli eventi sono letti da alcuni in un modo e da altri nel modo opposto, e che molti trattano i fatti come i tasselli di un mosaico per loro già completo, riporto qui di seguito le risposte di due colleghi alla mia richiesta di commentare la notizia, di domenica 8 maggio, della visita a Damasco del ministro degli Esteri del Bahrain, ricevuto dal presidente al-Asad.

Il primo collega, della schiera di chi crede nella genuinità delle manifestazioni, afferma che il responsabile della diplomazia di Manama è andato a Damasco per consegnare al raìs siriano l’assicurazione che l’Arabia Saudita – tradizionalmente vera artefice della politica estera del piccolo Bahrain – è a fianco del regime nel reprimere i manifestanti. In materia, Riyad e Manama hanno di recente acquisito una buona esperienza sul campo.

Il secondo collega, della schiera di chi crede alla regia esterna delle proteste in Siria, afferma che il ministro degli Esteri del Bahrain è andato a proporre ad al-Asad l’appoggio del Golfo, in cambio di un allentamento delle relazioni tra la Siria e l’Iran. In caso contrario – prosegue il collega – la rivolta sunnita telecomandata da Riyad si farà ancora più violenta e generalizzata.

Compito a casa: sulla base degli esempi forniti finora, costruire la teoria del “ma anche” applicata alla notizia relativa alla visita a Damasco del responsabile della diplomazia del Bahrain.

(10/05/2011)

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