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Obama delude il Medio Oriente

 

GERUSALEMME
Due anni fa al Cairo, con il suo discorso al mondo arabo-islamico, Barack Obama provò ad inviare un segnale diverso dopo gli otto anni di George Bush alla Casa bianca. Il segnale di una amministrazione con una visione diversa dei rapporti tra gli Stati uniti e il Medio Oriente. Non pochi arabi lo applaudirono, pieni di speranza. Due anni dopo il nuovo discorso che leggerà oggi il presidente americano ufficializzerà il mancato rinnovamento della politica Usa nella regione.
Rivolte e proteste agitano i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, non certo per merito di Obama. Anzi, il presidente americano all’inizio aveva appoggiato i due despoti (buoni alleati di Washington), il tunisino Ben Ali e l’egiziano Mubarak, per poi abbandonarli rapidamente di fronte a proteste popolari ormai incontenibili. Si è fatto garante in questi mesi della stabilità dei regimi feudali nel Golfo che negano libertà e diritti fondamentali alle loro popolazioni. E come aveva fatto tante volte il suo predecessore, anche Obama si prepara, forse proprio oggi con il suo discorso, ad annunciare una stretta nei confronti del «nemico» siriano Bashar Assad. Non che il regime di Damasco meriti comprensione dopo le centinaia di morti che ha fatto tra i manifestanti siriani scesi in strada nelle ultime settimane, ma Washington ancora una volta usa il pugno di ferro con gli avversari e stringe forte la mano ai «buoni amici», anche quando, come re Hamad del Bahrein, si macchiano di crimini gravissimi contro civili inermi. Il New York Times scriveva ieri che Obama criticherà apertamente il presidente siriano. Invocherà perciò libertà e democrazia in Siria ma si guarderà bene dal reclamarla anche in Arabia saudita, il più fedele degli alleati arabi e paese dove sono vietati i partiti politici, la libertà di espressione e le donne non hanno alcun diritto. Non mancheranno anche la secca condanna del leader libico Gheddafi, con il quale gli Stati uniti hanno più o meno segretamente collaborato a molti livelli in questi ultimi anni, e la previsione di un luminoso futuro per l’umanità dopo l’uccisione di Osama bin Laden.
Ma, più di tutto, è rispetto al conflitto israelo-palestinese che da Washington oggi non spirerà alcun vento di cambiamento. L’altra sera, incontrando nello Studio ovale il re giordano Abdallah (un altro esempio di leader «democratico»), Obama ha detto che «è più importante che mai che israeliani e palestinesi trovino il modo di riprendere i negoziati». Frasi banali di fronte al fallimento totale della strategia dell’attuale amministrazione che dopo aver inizialmente adottato una linea più rigida nei confronti del governo di Benyamin Netanyahu e contro la colonizzazione israeliana di Cisgiordania e Gerusalemme Est, ha fatto gradualmente retromarcia fino alla rinuncia ad avviare qualsiasi iniziativa concreta. E secondo il quotidiano di Tel Aviv, Yediot Ahronot, che afferma di aver ottenuto una bozza del «major speech», Obama – a poche ore dall’incontro che avrà domani con Netanyahu a Washington -, chiederà ai palestinesi di riconoscere Israele come «Stato del popolo ebraico» e si esprimerà con forza contro la proclamazione unilaterale di indipendenza palestinese che il presidente dell’Anp Abu Mazen intenderebbe fare il prossimo settembre. Non è escluso che intervenga sulla formazione del nuovo governo palestinese, figlio della recente riconciliazione Fatah-Hamas. Il riconoscimento palestinese di Israele come Stato ebraico è il punto sul quale batte ormai da due-tre anni a questa parte l’intero establishment politico israeliano. Una richiesta mai presentata ai passati tavoli di trattativa che, indirettamente, mira ad ottenere l’annullamento del «diritto al ritorno» alle loro case (ora in territorio israeliano) per i profughi palestinesi del 1948 (oggi oltre 4 milioni) sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu, e che mette in ansia la minoranza araba in Israele. «I negoziati rimangono la nostra prima opzione – ha spiegato Abu Mazen la posizione palestinese, due giorni fa dalle pagine del New York Times – ma dato il loro fallimento siamo costretti a rivolgerci alla comunità internazionale…non possiamo aspettare indefinitamente mentre Israele manda nuovi coloni nella Cisgiordania occupata e nega ai palestinesi l’accesso alla maggior parte delle nostre terre e luoghi santi, in particolare Gerusalemme». «Nè le pressioni politiche, nè le promesse di ricompensa da parte degli Usa hanno fermato il programma israeliano degli insediamenti», ha aggiunto.
Il discorso di Obama dovrebbe contenere, secondo la bozza pubblicata da Yediot, anche la richiesta a Israele di arretrare alle linee del 4 giugno 1967, precedenti all’occupazione militare di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Ma l’ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, lo ha smentito mentre il portavoce dell’amministrazione ha negato che sia stata diffusa una bozza del discorso.
da “il manifesto” del 19 maggio 2011

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