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Washington e Pechino, la coppia non scoppia

  

Dopo l’ultimo round a Washington della partita Usa-Cina si può ben dire che le due prime economie del mondo sembrano i partner di una vecchia coppia che non si sopportano più ma poiché l’una è ancora necessaria all’altra, sono costrette a trovare il modo di convivere senza massacrarsi a vicenda, come il cambiamento di pelle del mondo potrebbe spingerle a fare. Per la relazione più strategica e decisiva del secolo ora è la fase del business as usual. Il terzo incontro annuale del Dialogo economico e strategico tra Washington e Pechino, tenutosi il 9 e il 10 maggio, è infatti filato liscio. Le denunce di prammatica sui diritti umani infranti dai cinesi, soprattutto con l’ultima violenta ondata repressiva seguita alle rivolte arabe, sono arrivate puntuali, proferite dal segretario di stato Hillary Clinton e dal vice presidente Joe Biden, non hanno impedito che al tavolo del confronto le delegazioni, composte ciascuna da decine di politici, burocrati, uomini d’affari, e per la prima volta anche da militari, raggiungessero accordi su alcuni punti di frizione.
Risultati concreti ma modesti. Del cambiamento radicale di rotta auspicato all’esplosione della crisi finanziaria non c’è più traccia ma tant’è. Entrambe le potenze si trovano in un momento cruciale della propria storia. Gli Usa di Obama annaspano in un’economia che non decolla, nella quale la disoccupazione resta al 9% e il debito cresce, mentre si avvicina inesorabilmente la scadenza elettorale del 2012. La «vittoria» su Osama bin Laden potrebbe sbiadire, fino ad allora. La Repubblica popolare (Rpc), che in teoria dovrebbe essere sulla cresta dell’onda con i suoi ritmi di crescita mai rallentati, affronterà anch’essa nel 2012 un cambio della guardia che, per quanto non affidato all’alea delle urne ma ai riti del Partito, rappresenta un passaggio critico. Tanto più che molti nodi del suo sviluppo, economico e sociale, «insostenibile e squilibrato» (parole del premier Wen Jiabao), stanno venendo al pettine. La brutale ondata repressiva in corso rivela la criticità del momento.
Altri patti e altri tempi
Un quadro che ha aiutato a smorzare i toni del confronto a Washington. Al dunque quello che entrambi i paesi vogliono ottenere rapidamente è accedere più liberamente al mercato dell’altro, cosa per nulla scontata in questo momento, e qualche rassicurazione verbale in più è stata data. Le altre questioni, geopolitiche e militari, chiedono altri patti e altri tempi, e bisognerà vedere. Ma l’impegno a continuare il confronto è già un risultato.
Di fatto il vero confronto Usa-Cina avviene ogni ora di ogni giorno su tutto lo scacchiere planetario, nel quale il cosiddetto G2 è stato interrato prima ancora di nascere e dove va oggi in scena una rappresentazione certo animata dalla Cina ma che probabilmente nessun G può rappresentare.
La situazione è ben descritta nel rapporto The Evolving Role of China in International Institutions presentato nel marzo scorso alla Us-China Economic and Security Review Commission del Congresso. Nella relazione (che si può leggere per intero sul sito www.uscc.gov.), gli autori, Stephen Olson e Clyde Prestowitz dell’Economic Strategy Institute, osservano che Pechino, entrata in tutte le istituzioni del governo internazionale «le usa con grande competenza ed efficacia per difendere i propri interessi nazionali e ottenere ciò che le serve». Nel progredire di questa azione, il ruolo e l’influenza cinesi sono oggi al centro di un’importante evoluzione, «che avrà un impatto profondo nel modo in cui gli Usa perseguono i loro interessi economici e strategici internazionali». Al dunque, avvertono i due relatori, sarà sempre più difficile per Washington ottenere Us solutions. La crisi finanziaria che ha indebolito l’Occidente, e gli Usa in particolare, ha agito da acceleratore e approfondito un andamento che vede la Rpc sfruttare in pieno sullo scenario internazionale, con finanziamenti, aiuti e investimenti, gli ingenti mezzi che la forza economica le fornisce, accrescendo così il proprio ascendente. Inevitabile che, dopo aver abilmente usato le regole del gioco, la Cina sfrutterà la propria influenza per cambiarle. Come notano ironicamente Olson e Prestowitz, «mentre l’Occidente cerca di far posto alla Cina ridisponendo le sdraio in coperta, i cinesi stanno costruendo una nuova nave».
Uno degli effetti collaterali più rilevanti di questa azione è tuttavia che «un vasto numero di altri paesi economicamente e strategicamente importanti (incoraggiati dall’esempio cinese) si sentono sempre più autorizzati a sostenere i propri punti di vista e a difendere i propri interessi nazionali, senza necessariamente cadere nell’adesione a formule semplificate, siano esse il Washington Consensus o il Beijing Consensus» . L’effetto Cina, insomma, «ha generato uno scenario politico, più complicato e multidimensionale» con cui tutti dovranno confrontarsi. Pechino compresa, va aggiunto. La stessa Rpc infatti non può dare per scontato nulla in questo nuovo sistema di relazioni, dovendo fronteggiare il proliferare di reazioni negative all’impatto ambientale, sociale ed economico generato dai suoi interventi.
Vuoto di leadership globale
È questo il mondo complesso che il Dialogo strategico bilaterale ha tenuto accuratamente fuori. Ma la questione resta e preme. Quanto incerta e tesa sia l’attuale fase storica lo hanno sottolineato Ian Bremmer e Nouriel Roubini su Foreign Affairs (marzo/aprile 2011) in un articolo dal significativo titolo A G-Zero World. La crisi globale, argomentano i due economisti, ha prodotto un vuoto di leadership globale e fatto a pezzi tutte le formule di coordinamento internazionale. Dal G 20, l’ultima formazione chiamata in campo a orchestrare il salvataggio globale, si alza oggi «una cacofonia di voci in competizione» mentre sarebbe necessario porre mano alle questioni cruciali aperte dal dissesto, come la riforma del sistema finanziario, economico e valutario internazionale. Ma nell’analisi dei due economisti «è più probabile che questa era del G-Zero produca conflitti prolungati piuttosto che una nuova Bretton Woods». Mentre Obama arriva in questi giorni in Europa dove, in Normandia, si svolgerà giovedì 26 e venerdì 27 un ennesimo vertice dei G8.
È in questo scenario che hanno fatto irruzione le rivolte piene di speranza del mondo arabo, elemento di capovolgimento che nessuno aveva previsto, ma che fa parte integrante del terremoto delineato. A drammatica conferma delle previsioni di Bremmer e Roubini, la comunità internazionale non ha dato risposte all’altezza delle questioni poste dalle insurrezioni. Si è piuttosto assistito a un riflesso condizionato del vecchio ordine che, dopo aver protetto e usato i despoti, per non mollare la presa e governare senza che nulla cambi continua oggi con la logica delle vecchie guerre, iniziandone un’altra e proiettandone di nuove sul futuro. Quel futuro che per essere davvero tale chiede invece «solo» regole diverse e modi più giusti di governare il mondo. Niente di più e niente di meno.
da “il manifesto” del 22 maggio 2011

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