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8 complici in crisi, ma “duri” con i piccoli

Un G8 che sarebbe ingiusto riassumere con la sortita demenziale di Berlusconi che s’avvicina a Obama per lamentarsi della magistratura italiana, come se gli Usa potessero – passando sopra Milano – sganciare una bomba particolarmente “intelligente”. Ma che, anche grazie a quest’episodio da vassalli di lontane province, brilla per le assenze più che per le presenze. Non c’è il resto del G20, la parte dinamica, in crescita robusta, che avanza la richiesta – ovvia – di contare di più anche nelle istituzioni internazionali.

È una riunione tra ex grandi col fiatone, complici non troppo unitari dell’aggressione alla Libia e che devono trovare la quadra per affrontare la crisi economica, che ormai viaggia attraverso il debito pubblico dei vari paesi, ingigantito dalla “necessità” di salvare le allegre banche. Lo ha ammesso lo stesso Obama, pare, dicendo che “i limiti di bilancio americani impediscono agli Stati Uniti di agire da motore dell’economia mondiale”.

E quindi le due questioni messe sul tappeto sono state “stabilità economica e democrazia”. Proprio l’evoluzione della crisi in parecchi paesi – a cominciare da quelli che hanno dato vita alla “primavera araba” – ha evidenziato il rischio (per l’Occidente) che il malessere sociale possa prendere forme politiche “sgradite”. Costringendo così i “potenti” ad assumere una posizione cauta, di quasi-appoggio (nonostante siano saltati alcuni dei “punti fermi” della politica imperiale, come Ben Alì e Mubarak), sintetizzata esplicitamente come evolution, not revolution.

Barack Obama ha messo sul tavolo del G8 il proprio piano di aiuti a Egitto e Tunisia, incassando facilmente l’appoggio degli altri leader: tutti insieme chiederanno al Fondo Monetario Internazionale (Fmi) di far fronte alle necessità immediate di finanziamento di tali paesi, creando un fondo di sostegno di lungo periodo e spingendo la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers) ad estendere i prestiti alle coste sud del Mediterraneo.

La Gran Bretagna ha messo il suo primo “chip” (uno stanziamento straordinario di 175 milioni di dollari a sostegno delle riforme). Briciole, visto che, secondo uno studio del Fmi, i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa che importano petrolio avranno bisogno di 160 miliardi di dollari di finanziamenti esterni fino al 2013. Il documento del G8 prevede comunque la concessione di prestiti fino a 35 miliardi di dollari ai paesi dell’area, se dovessero essere richiesti. Gli Stati Uniti, per diventare credibili, ridurranno il debito dell’Egitto di un miliardo di dollari, offrendo contemporaneamente garanzie per un altro miliardo; 2 miliardi di garanzie andrebbero infine a coprire “partnership pubblico-private”.

 

Ma c’era anche da garantire l’Europa, preoccupata di conservare la guida del Fondo monetario. In cambio, i paesi guida del Vecchio Continente dovranno disciplinare i “Pigs” e arruolarsi a sostegno del “Piano Marshall” per il Nordafrica. La salute dell’eurozona preoccupa però anche gli Stati Uniti, che hanno puntato molto sull’indebolimento del dollaro per recuperare spazio alle proprie esportazioni. Un contemporaneo indebolimento dell’euro – conseguenza obbligata delle voci di default greco – rischia di vanificare quasi integralmente questo obiettivo non dichiarato.

La partita del Fmi dopo le dimissioni di Dominique StraussKahn (con la Francese Lagarde in pole position, nonostante un presunto coinvolgimento nell’”affaire Tapie” e l’ostilità degli “emergenti”, che non vedono affatto di buon occhio questa continuità di sapore “colonialista”), e l’instabilità dell’eurozona, s’intrecciano così con il tema dominante di questo G8: «la democrazia nel mondo arabo non sarà sostenibile senza una modernizzazione economica». Un bel problema, visto che ­ a parte i paesi esportatori di petrolio ­ tutti gli altri insieme esportano meno della Svizzera.

 

Divisioni sottili, che vengono temporaneamente messe da parte evidenziando il punto comune: far fuori definitivamente Gheddafi e minacciare il siriano Assad di fare presto la stessa fine.

Il documento finale, su tutto il resto, sembra più un’esibizione di wishful thnking che non un programma di viaggio con stazioni certe. La «nostra priorità resta la creazione di lavoro per i nostri cittadini», e quindi proseguiranno «gli sforzi per una crescita forte, sostenibile e duratura» per la quale gli Otto continueranno «a lavorare con i partner del G20».

L’Europa – si legge nel comunicato – ha varato «un ampio pacchetto di misure per fronteggiare la crisi del debito sovrano in alcuni Paesi e continuerà ad affrontare la situazione con determinazione», in particolare perseguendo «un rigoroso consolidamento dei bilanci e l’attuazione delle riforme strutturali per la crescita». Le due cose sono notoriamente in contraddizione, mala ricetta adottata prescive appunto un forte ridimensionamento della spesa pubblica (che ha sempre effetti depressivi sull’economia) e “riforme” (liberalizzazioni, privatizzazioni, smantellamento di tutele e welfare) che – sperano – dovrebbero sortire l’effetto opposto.

Dal canto loro «gli Stati Uniti metteranno in campo un regime di consolidamento di bilancio a medio termine chiaro e credibile, coerente con la necessità di creare posti di lavoro e crescita economica». E anche il Giappone «affronterà la questione della sostenibilità delle finanze pubbliche, nonostante lo sforzo da compiere per la ricostruzione dopo il disastro»

Un supporto europeo ad Obama arriva anche sul fronte dei rapporti tra Israele e palestinesi: «Siamo convinti che gli storici mutamenti che stanno riguardando la regione rendono più importante, e non meno importante, la soluzione del conflitto israelo-palestinese». I firmatari sottolineano «l’urgenza» che «entrambe le parti riprendano, senza ritardi, i negoziati in vista di un accordo sullo status finale». Qualcuno, prima o poi, dovrà però minacciare sanzioni anche nei confronti di Netanyahu. Altrimenti i “ritardi” saranno come sempre abissali.

La transizione di Egitto e Tunisia verso “la democrazia” sarà sostenuta con 20 miliardi di euro per il periodo 2011-2013. «I cambiamenti in corso in Medio Oriente e nel Nordafrica sono storici e possono aprire la via agli stessi sconvolgimenti avvenuti nell’Europa centrale ed orientale dopo la caduta del muro di Berlino – si legge nel documento – Noi, membri del G8, sosteniamo fermamente le aspirazioni della primavera araba e quelle del popolo iraniano». Dopo aver accolto con favore la decisione delle autorità egiziane «di sollecitare l’aiuto dell’Fmi e delle banche di sviluppo multilaterali e quella della Tunisia in favore di una politica di prestiti congiunta e coordinata», il G8 annuncia che le istituzioni finanziarie «potranno fornire più di 20 miliardi di dollari, di cui 3,5 dalla Banca europea per gli investimenti, a Egitto e Tunisia per il periodo 2011-2013 per sostenere le riforme». Oltre a questo, gli otto Grandi mobiliteranno «aiuti bilaterali sostanziali per accrescere questo sforzo».

La minaccia per Assad prende corpo verso a fine del testo, quando ci si appella anche alla Siria affinché «si fermi l’uso della forza e delle intimidazioni alla popolazione» auspicando un dialogo e una stagione di riforme in risposta «alle richieste del popolo» siriano. «Noi siamo sconvolti per la morte di numerosi manifestanti a seguito dell’uso massiccio della violenza da parte delle autorità siriane e dalle violazioni gravi e ripetute dei diritti dell’uomo». E quindi, «solo la via del dialogo e delle riforme fondamentali porterà alla democrazia e, attraverso questa, alla sicurezza e ad una prosperità duratura in Siria». «Se le autorità siriane non ascolteranno questo appello – è la conclusione che annuncia l’avvio di un’escalation per ora solo diplomatica – noi esamineremo un’azione al Consiglio di sicurezza» dell’Onu.

La crisi economica è difficile da maneggiare, insomma. E l’unico modo di mostrarsi ancora “grandi” resta quello di intervenire contro paesi ­ certo non democratici ­ ma soprattutto abbastanza piccoli.

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