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Intifada sulle alture del Golan

 

GERUSALEMME
Pare che ieri sia intervenuta la polizia siriana a frenare i dimostranti palestinesi (e non solo) che hanno provato ad avvicinarsi di nuovo ai reticolati che corrono lungo le linee di armistizio tra Siria e lo Stato ebraico, sulle Alture del Golan occupate da Israele da ben 44 anni. Gruppetti di manifestanti, con in mano le bandiere della Palestina e della Siria, sono riusciti a passare il filtro e si sono spinti fino a poche decine di metri dalle reti, scandendo slogan per il «diritto al ritorno» dei profughi e per i palestinesi – 23 per la televisione siriana, molti di meno secondo Tel Aviv – caduti domenica sotto il fuoco dei tiratori scelti israeliani. Non ci sono stati morti ieri sul Golan ma i tre battaglioni di fanteria lasciati sul posto dall’esercito israeliano avevano messo in chiaro le cose il giorno prima: apriremo il fuoco, anche se di fronte avremo civili disarmati.
Diversi giornali israeliani hanno sottolineato con orgoglio che i palestinesi «non sono passati», non hanno nuovamente «violato» il territorio dello Stato come il 15 maggio, in occasione dell’anniversio della «Nakba». Ma quei reticolati non sono un confine, sono soltanto una linea d’armistizio, fissata da mediazioni internazionali al termine dell’ultima guerra aperta, fatta di duelli aerei e battaglie con centinaia di carri armati, tra siriani e israeliani nel 1973-74. Il bagno di sangue di domenica e quello del 15 maggio sono avvenuti in territorio siriano, perché il Golan era e resta siriano per le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Non ha alcun valore, così come per Gerusalemme Est, l’annessione al territorio israeliano del Golan votata dalla Knesset nel 1981. Israele torni alle linee del 1967, ha detto il mese scorso Barack Obama ingranando poi la retromarcia.
Per il premier israeliano Netanyahu, il regime siriano proverebbe ad allentare la pressione internazionale per le uccisioni di civili che compie da settimane «manipolando» l’ansia di ritorno e giustizia dei palestinesi. Certo, c’è anche una componente siriana in questo improvviso riscaldarsi di un’area rimasta calma per quasi 40 anni. Ma è un aspetto marginale. Perché è in atto un fenomeno nuovo tra i palestinesi, figlio delle proteste popolari arabe in corso da mesi e che ha avuto la sua rappresentazione più compiuta lo scorso 15 marzo con le manifestazioni, convocate via internet, per l’unità nazionale. I protagonisti sono i giovani, lontani da ogni partito. Sono i «Gybo» di Gaza, i ragazzi del campo profughi di Yarmouk, i giovani tenuti in gabbia ad Ein al Hilwe in Libano e quelli di Daheishe in Cisgiordania. Giovani che non possono più essere contenuti, per numero e per voglia di ribellarsi, che uniscono alla lotta per i diritti negati ai palestinesi, la rivendicazione economica e sociale. L’altro giorno sul Golan e in Cisgiordania sono stati fermati dalle pallottole e dai lacrimogeni dei soldati israeliani. In Libano li hanno bloccati l’esercito e i consigli «paterni» di Hezbollah che non vuole offrire motivi per nuove iniziative militari israeliane.
Ma il «contenimento» non basta, si è innescato qualcosa di più grosso, una mobilitazione diversa, nelle forme e in parte anche nei contenuti, dalla prima e dalla seconda Intifada. I palestinesi hanno riscoperto la forza del numero, le possibilità di una lotta popolare non armata che già contro il Muro, a Bilin e in altri villaggi cisgiordani, ha mostrato le sue enormi potenzialità, anche dal punto di vista mediatico. Non è un caso che un alto ufficiale israeliano abbia avvertito qualche giorno fa che il Golan non diventerà «un nuovo Bilin». Forse la «pressione alle frontiere» perderà di intensità ma già sono in cantiere nuove e più ampie iniziative palestinesi, che si aggiungono a quelle internazionali, come la Freedom Flotilla «Stay Human», sul punto di salpare di nuovo per Gaza. L’ultima conosciuta si chiama «Fly -in» ed è prevista il prossimo 8 luglio, anniversario della sentenza di condanna del Muro israeliano (in Cisgiordania) da parte della Corte Internazionale dell’Aja. Mille, forse duemila, palestinesi che vivono all’estero prenderanno un aereo per Tel Aviv per reclamare il diritto al ritorno nella loro terra. E di fronte al prevedibile «divieto d’ingresso» da parte delle autorità del «Ben Gurion», annunciano forme di protesta e di resistenza passiva all’interno dell’aeroporto.
Ma la tensione per la questione palestinese irrisolta presto arriverà anche nell’Egitto «post-Mubarak», se continueranno le restrizioni ai movimenti delle persone che pure il governo del Cairo aveva detto di voler revocare al valico di Rafah con Gaza. Lo scorso weekend centinaia di civili palestinesi hanno reagito attaccando il transito, dopo averlo trovato sbarrato senza alcun motivo sul lato egiziano. Il valico ieri è rimasto chiuso per il terzo giorno consecutivo per decisione del governo di Hamas, in ritorsione per l’inspiegabile ed improvvisa decisione delle autorità egiziane di autorizzare il passaggio soltanto a piedi, con grande disagio per i viaggiatori anziani e i bambini.
da “il manifesto” del 7 giugno 2011

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