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Problemi e bilanci di una “vittoria” senza progetto esplicito

Finita o quasi la bruta cronaca – in cui non è stato difficile, per tutti i media, immettersi nel filone degli “embedded” fino a prendere le cantonate più inqueitanti (l’arresto fasullo di Seif Gheddafi, per ricordare il più incontestabile) – è l’ora delle analisi un tanto al chilo. Ricordatevene.

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I veleni in coda a una dittatura

Il regime di Gheddafi è virtualmente morto, ma potrebbe riservarci ancora qualche sorpresa. Non commettiamo l’errore di pensare che il Colonnello sia stato sempre impopolare. Le sortite nazionaliste e anti-occidentali piacevano a una parte della società libica e dell’opinione pubblica africana. I laici e i musulmani moderati approvavano il rigore con cui aveva combattuto e spento i focolai dell’islamismo radicale. Le straordinarie risorse naturali del Paese hanno arricchito il clan familiare del leader e creato una larga cerchia di profittatori, ma hanno anche consentito la nascita di nuovi ceti sociali, soprattutto negli apparati della pubblica amministrazione e dell’economia statale.

Accetteranno, senza opporre resistenza, di rinunciare a ciò che hanno conquistato? Non tutti coloro che hanno combattuto per lui negli scorsi mesi erano mercenari prezzolati o poveri soldati costretti dai loro ufficiali a morire per il capo. La guerra civile ha creato rancori che potrebbero riemergere nei prossimi mesi e minacciare la stabilità del Paese. Le tribù sono entità complesse e imprevedibili su cui abbiamo informazioni insufficienti. Quanto tempo sarà necessario perché la Libia possa considerarsi interamente pacificata? Dov’è, nelle file dei ribelli, la dirigenza che sarà in grado di assicurare la transizione? Fra coloro che andranno al potere dopo il crollo del regime, molti chiederanno giustizia. Il Tribunale penale internazionale, in particolare, sarà felice di affermare la propria competenza e sembra pronto a processare sia Gheddafi, se la sua vita non terminerà in un altro modo, sia i figli e altri membri del suo clan familiare.

Un processo a Gheddafi sarebbe una pietra miliare nella lunga strada verso la giustizia internazionale. Ma qualcuno ricorderà un brillante testo teatrale, pubblicato a Londra durante la Seconda guerra mondiale, in cui un uomo politico laburista, Michael Foot, mascherato sotto lo pseudonimo di Cassius, immaginava un processo a Mussolini dopo la fine del conflitto. Nel brillante pamphlet dell’autore la prima mossa dell’imputato era quella di chiamare sul banco dei testimoni tutti gli uomini politici britannici che lo avevano elogiato e adulato. Quanti uomini politici, soprattutto europei, verrebbero convocati all’Aja per rendere conto dei loro rapporti con il leader libico? La fine del regime di Gheddafi è una buona notizia. Ma se vogliamo che sia utile al futuro della Libia e più generalmente a quello dei Paesi dell’Africa del Nord, nessuna di queste domande può essere ignorata o sottovalutata. Non basta salutare la fine del tiranno, la vittoria del popolo, il trionfo della democrazia.

Occorre aiutare i libici a superare questa fase, a dotarsi di un governo credibile, a impegnarsi il più rapidamente possibile nella ricostruzione politica ed economica del Paese. La Nato ha fatto la guerra e dovrebbe dare un contributo alla pace. Ma dubito che abbia i mezzi e le competenze necessarie per un lavoro estraneo alla sua cultura e alle sue esperienze. Il compito quindi è dell’Europa e in particolare dei Paesi della regione, fra cui, in prima linea, l’Italia e la Francia. Ma saremo tanto più efficaci quanto più eviteremo di perseguire, come in passato, obiettivi e interessi individuali di corto respiro. Dall’unità dell’Europa dipende oggi il futuro della Libia.

Sergio Romano

 

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da Il Sole 24 Ore

Il ruolo militare delle truppe occidentali nella battaglia di Tripoli

di Gianandrea Gaiani

 

Quanti sono e cosa fanno i militari occidentali che affiancano i ribelli libici nella battaglia di Tripoli? Il sito israeliano Debka, solitamente ben informato sulle questioni militari e di intelligence, ha rivelato la presenza di consiglieri militari della Nato (in particolare uomini delle forze speciali francesi e britannici) in appoggio ai ribelli impegnati nell’assalto a Tripoli. immediata la smentita del portavoce della missione dell’Alleanza Atlantica in Libia, Roland Lavoie.«Il nostro mandato prevede la protezione dei civili, una no fly zone e l’embargo. Non l’invio di truppe a terra».

Una risposta accettabile solo perché i consiglieri militari francesi, britannici – ma anche statunitensi e italiani la cui presenza in Libia è stata più volte rilevata negli ultimi mesi – non rispondono del loro operato alla Nato ma dipendono direttamente dai singoli Paesi. Gli stessi che hanno fornito in segreto armi ai ribelli utilizzando lanci paracadutati o sbarcandoli a Bengasi e Misurata sotto la copertura degli “aiuti umanitari” come hanno rivelato al Sole 24 Ore fonti ben informate.

Una trentina di ufficiali inviati da Parigi, Londra e Roma lavorano nell’embrione di stato maggiore costituito dagli insorti a Bengasi con compiti di consulenza ma molti altri operano sul campo, in prima linea o dietro le linee dei lealisti per raccogliere informazioni, guidare i raid aerei della Nato su obiettivi sensibili (come le rampe di missili balistici Scud schierate a Sirte e impiegate negli ultimi giorni per lanciare almeno quattro missili su Brega e Misurata) e soprattutto per coordinare le operazioni dei miliziani.

Forze speciali francesi, personale statunitense di Cia e Special forces, contractors e squadre dello Special air service britannici insieme a incursori italiani assistono i ribelli nell’impiego di armi complesse come i missili anticarro e l’artiglieria e soprattutto fungono da ponte per trasferire ai reparti degli insorti sul terreno le informazioni fornite dall’intelligence e dai velivoli di ricognizione e sorveglianza, inclusi gli aerei teleguidati che tengono sotto controllano l’area di Tripoli.

Gli insorti non hanno la capacità di gestire le sofisticate apparecchiature (peraltro segrete) necessarie a ricevere ed analizzare dati e immagini provenienti dagli aerei alleati e non sono addestrati a combattere con il supporto ravvicinato degli elicotteri d’attacco Apache, Gazelle e Tigre messi in campo dai franco-britannici. Per questo i consiglieri militari stranieri hanno svolto un ruolo di primo piano nell’offensiva che ha portato a Tripoli almeno 3 mila insorti (ma molti rinforzi sarebbero in arrivo), coordinando l’avanzata spianata dai velivoli alleati che in cinque mesi hanno effettuato oltre 20 mila missioni distruggendo 5 mila obiettivi tra i quali 800 mezzi corazzati e pezzi d’artiglieria.

Secondo Debka i consiglieri militari occidentali costituiscono uno degli obiettivi della controffensiva scatenata nella capitale dalle truppe lealiste che a Tripoli disporrebbero di 5 mila combattenti ben addestrati e di altri 15 mila ancora operativi nel resto del Paese. Numeri e valutazioni difficili da verificare.

 

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da La Stampa

Oltre al ragionato pezzo di Molinari, vi consigliamo la lettura del delirante commento di Parsi, vero e proprio “embedded” militare senza altro scopo che sostenere le pratiche di aggressione a chiunqe entri nel mirino occidentale.

Effetto domino su Assad

 

MAURIZIO MOLINARI

Dopo aver eliminato Osama bin Laden e rovesciato Muammar Gheddafi il presidente americano Barack Obama punta alla caduta di Bashar Assad.

La Casa Bianca non ama l’espressione «presidente di guerra», evita di parlare di «missioni compiute» e teorizza il ruolo di leadership americana nel mondo «guidando dal sedile posteriore» ma ciò non toglie che da Abbottabad a Tripoli fino a Damasco stia prendendo forma una dottrina Obama contro despoti e dittatori. Per capire di cosa si tratta bisogna ascoltare Ben Rhodes.

Il trentenne esperto di strategia che scrive gran parte dei discorsi di Obama sulla sicurezza nazionale, quando afferma che «questa amministrazione segue politiche diverse su ogni scenario» partendo dalle «condizioni sul terreno». Nel caso di Bin Laden l’eliminazione è arrivata con la formula militare che coniuga intelligence, droni e forze speciali perché ha consentito di operare sul terreno di un Paese alleato come il Pakistan a dispetto dei suoi servizi segreti, considerati infiltrati da elementi jihadisti. Si è trattato dunque di un’operazione tutta americana mentre nel caso dell’intervento in Tripoli la scelta è stata di puntare sull’accoppiata fra legittimazione internazionale – la risoluzione Onu, il sostegno della Lega Araba e l’intervento della Nato – e il sostegno ai ribelli con metodi non tradizionali come l’addestramento da parte delle forze speciali, la forniture d’armi giunte da Paesi alleati e l’impiego delle più sofisticate apparecchiature di intelligence per suggerire alle tribù berbere quando iniziare l’assalto finale verso la Piazza Verde di Tripoli. Nel caso della Siria la formula a cui si affida l’amministrazione Obama è un’altra ancora: nessun intervento militare ma massiccio sostegno all’opposizione interna grazie a gioielli della tecnologia come le valigette che consentono di creare reti Internet capaci di sfuggire alla sorveglianza del regime, nella convinzione che il movimento di protesta interna contro Assad ha dimensioni tali da aver determinato una «cambiamento di rapporti di forza sul terreno», come li definisce William Burns, vice del Segretario di Stato Hillary Clinton, riferendosi all’indebolimento degli apparati di sicurezza del regime.

L’unico tassello che accomuna l’operazione-Siria della Casa Bianca a quella libica sta nel costante lavorìo diplomatico per accrescere l’isolamento del dittatore con un misto di sanzioni nazionali, multilaterali e, quando possibile, delle Nazioni Unite. La differenza di approcci alle crisi presenti nel mondo arabo-musulmano può fa apparire l’amministrazione Obama incerta, ambigua e in contraddizione ma per Rhodes e Burns la coerenza sta nella «direzione di marcia» ovvero la decisione di mettere alle strette gli avversari dell’America ovunque si trovano, facendo leva sui mezzi pragmaticamente disponibili. Questo approccio ha il vantaggio di rendere Obama imprevedibile per i suoi avversari, che spesso lo sottovalutano, andando incontro a errori fatali. Bin Laden era sicuro di poter sfuggire alla caccia dei droni, Gheddafi pensava di fare tranquillamente strage degli abitanti di Bengasi e Assad ha continuato a promettere candidamente «riforme» mentre ordinava di sparare ad alzo zero sulle manifestazioni di piazza. Il risultato è uno scacchiere arabo-musulmano dove gli avversari dell’America che Obama ha ereditato da George W. Bush sono in questo momento caduti o sulla difensiva. Con l’eccezione dell’Iran di Mahmud Ahmadinejad che ha avuto successo nel reprimere le proteste e continua ad inseguire l’atomica. Ma alla Casa Bianca assicurano che l’«indebolimento di Assad investe l’Iran» usando un linguaggio da effetto-domino, seppur non dichiarato.

 

 

 

 

Ultimo atto dell’Undici Settembre

VITTORIO EMANUELE PARSI

Quando dieci anni fa Osama Bin Laden scatenò la sua guerra personale contro gli Stati Uniti, in molti osservammo che il mondo non sarebbe stato più lo stesso e che le conseguenze sul sistema politico internazionale, a partire dalla regione del Grande Medio Oriente, sarebbero state drammatiche. Il crollo del regime del colonnello Gheddafi, può così essere visto come l’ultimo dei cambiamenti prodotti quel giorno, ma il cui segno è quello del ribaltamento della logica che ha generato l’11 settembre.

Le rivoluzioni che stanno scuotendo il Maghreb e il Levante rappresentano un’importante sconfitta per il progetto qaedista, perché mostrano quasi “plasticamente” che la politica è soprattutto qualcosa che si svolge alla luce del sole, nelle piazze, mobilitando le persone e non terrorizzandole attraverso azioni omicide concepite nella psicotica oscurità di remote caverne. Con il loro successo nel rovesciare quei tiranni contro cui il terrorismo si era in gran parte vanamente scagliato, i moti della Primavera araba hanno relegato ai margini del discorso politico arabo la violenza terroristica e riaperto lo spazio discorsivo all’islam politico. L’ultimo, in termini temporali, dei grandi avvenimenti di questo decennio è così forse il più significativo. Più ancora, al di là dell’enorme impatto simbolico, dell’eliminazione fisica di Osama. Proprio per la loro spontaneità e per il loro totale radicamento autoctono, le rivoluzioni arabe stanno ridisegnando un Grande Medio Oriente che sembra lasciarsi alle spalle l’11 settembre e le sue conseguenze insieme a quella miriade di errori strategici americani che ne sono stati l’incubatrice. Esse rappresentano in realtà il principale elemento di speranza per un quadro regionale che da quella fatidica data non aveva fatto altro che divenire più precario e insieme più bloccato, nonostante la quantità gigantesca di risorse politiche, economiche e soprattutto militari impiegate per costruire un nuovo ordine più stabile e sicuro.

Appena accantoniamo le rivoluzioni che in Tunisia, Egitto e Libia hanno rovesciato presidenti e raiss o che sono ancora in corso in Yemen e Siria, ciò che colpisce del Medio Oriente non è tanto la sopravvivenza o meno di questo o quel regime, quanto piuttosto la persistenza dei suoi caratteri ad un tempo più resilienti eppure strutturalmente dissipatori d’energia. È vero, in questi dieci anni la regione ha conosciuto rivolgimenti non di poco conto, spesso ottenuti con il vasto impiego del tritolo e dei suoi moderni derivati: al costo di una quantità di bombe superiore a quelle sganciate sulla Germania in tutto il II conflitto mondiale, Saddam Hussein è stato rovesciato ed è finito al patibolo. In Afghanistan i Talebani sono stati rimpiazzati dalla “Repubblica di Karzai”. Due regimi ostili agli Stati Uniti sono cioè stati sostituiti da due regimi sostenuti dagli Stati Uniti, sia pur non così affidabili come alleati. La stagione riformista della Repubblica Islamica Iraniana, che dieci anni fa era guidata dal raffinato Khatami, discendente del Profeta, dopo che una sanguinosa repressione ha schiacciato i primi moti di libertà dell’intera regione, è oggi stretta nella plumbea morsa di Ahmadinejad. Ma nonostante tutti questi eventi, quella drammatica fragilità che si era manifestata con l’11 settembre – quando l’America era all’apice del suo potere politico, economico e militare, l’incontrastata superpotenza solitaria il cui ordine sembrava dover regnare in Medio Oriente – non si è minimamente attenuata, semmai il contrario. La persistenza degli elementi di instabilità è cioè stata capace di metabolizzare persino l’avvicendamento dei regimi quando ciò è stato prodotto dall’esterno, con l’impiego di una forza tanto devastante quanto inconcludente.

Metafora, ma in realtà spiegazione di tutto quello che non riesce a cambiare è l’inabissamento del processo di pace israelo-palestinese o, per meglio dire, arabo israeliano. Non è né scandaloso né casuale, ma estremamente preoccupante questo sì, che il rimettersi in moto della politica in Egitto rischi di chiudere anche la finestra di opportunità aperta dalla pace separata siglata da Begin e Sadat nel 1978. Dal settembre 2001 a oggi il progressivo abbandono della ricerca sincera di una via negoziale per la pace tra israeliani e palestinesi ha prodotto la distruzione di Ramallah e l’umiliazione dell’OLP (ancora vivente Arafat), l’invasione di Gaza e il rafforzamento di Hamas, quella del Libano meridionale e il rafforzamento di Hezbollah, e ha visto peggiorare le condizioni generali di sicurezza del popolo israeliano. Difficile dimenticare che proprio la rabbia e l’umiliazione per l’infinito perpetuarsi del conflitto arabo-israeliano avevano contribuito ad alimentare il rancore di tanti arabi e l’odio di Bin Laden verso l’America. Tutto questo è restato pericolosamente dov’era: in un mondo, però, dove l’America non occupa più quella posizione di egemone solitario, signore della guerra e della pace di tutti e per tutti, che deteneva dieci anni fa.

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da “il manifesto”, il sempre preciso Maurizio Matteuzzi

Maurizio Matteuzzi
LIBIA Il ruolo decisivo dell’Alleanza e probabilmente non solo dal cielo
Nato: prima, durante, dopo

Forse per la vittoria finale non ci sarà neppure bisogno di aspettare il primo settembre. Che sarebbe (stata) una data dal forte potere simbolico: fu il primo settembre ’69 che il gruppo degli «Ufficiali liberi» guidato dal giovane colonnello Muammar Gheddafi lanciò il golpe indolore che avrebbe cacciato il putrido e corrotto regime di re Idriss, un burattino nelle mani degli inglesi. Cacciare Gheddafi il primo settembre 2011, quarantaduesimo anniversario dalla «rivoluzione», avrebbe (avuto) una potente valenza per gli insorti.
Qualche giorno prima o dopo non cambierà il corso della storia. E la storia dice che Gheddafi ha chiuso – qualunque sia la sua sorte – e che al posto della Jamahiriya sta per nascere una nuova Libia che nessuno sa ancora bene cosa sarà.
Bisogna dare atto al valore e al coreaggio degli insorti, ma senza l’apporto delle bombe e missili della Nato «la Rivoluzione del 17 febbraio» partita da Bengasi non avrebbe mai vinto e non sarebbe mai arrivata a Tripoli. Se c’è arrivata, dopo 5 mesi di impasse sul campo, lo deve alle « 20 mila missioni di volo» il cui «traguardo» è stato toccato proprio ieri e rivendicato orgogliosamente dalla portavoce Nato, Oana Lungescu. E, probabilmente, non solo di «missioni di volo» (Nato), di droni (Usa), di armi paracadutate (Francia), di materiale di comunicazioni (Gran Bretagna) si è trattato.
In molti si chiedono come mai, dopo 5 mesi di impasse sul campo, nel giro di pochi giorni – da domenica scorsa – le milizie degli insorti abbiano potuto attaccare e «liberare» Tripoli. Secondo la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza, votata il 17 marzo, l’Onu affidava alla Nato – divenuta l’agenzia militare delle Nazioni unite – il compito di proteggere i civili «con tutti i mezzi» eccetto che con l’invio di truppe di terra («boots on the ground»). Quella risoluzione era una foglia di fico per coprire l’intervento a tutto vapore, anzi a tutto missile, contro il regime di Gheddafi (che, per carità, anche se le bombe piovevano ogni notte sul suo compound di Tripoli, «non è mai stato un bersaglio per la Nato, come ha ripetuto anche ieri il portavoce militare). Un intervento diretto a proteggere i civili ma di una parte sola e a schierare il poderoso armamentario bellico e propagandistico in favore di una delle due parti in guerra infischiandosene dell’embargo che avrebbe dovuto valere per entrambe. Un intervento che escludeva a priori, nonostante si ripetesse quotidianamente la penosa litania delle necessità di «una soluzione politica e non militare» della crisi libica (anche ieri), qualsiasi ipotesi di una via d’uscita negoziata che avrebbe dovuto/potuto essere imposto ai contendenti dalla «comunità internazionale».
Di questo si è lamentato ieri a Johannesburg Jacob Zuma, presidente di un paese, il Sudafrica, che pure aveva votato la risoluzione di marzo per la no-fly zone, ma che poi ha criticato sempre più aspramente «l’abuso» del mandato ricevuto dall’Onu da parte della Nato e dei suoi sponsor occidentali. «Quelli che hanno il potere di bombardare altri paesi hanno stroncato gli sforzi e le iniziative dell’Unione africana per risolvere il problema libico», ha detto, «avremmo potuto evitare la perdita di tante vite umane».
E’ risaputo, nonostante i no comment e le smentite ufficiali di prammatica, almeno da aprile Francia e Gran Bretagna hanno inviato «consiglieri militari» fra le fila degli insorti. E ci sono voci che si rincorrono sulla presenza al fianco dei miliziani ribelli che hanno attaccato e fulmineamente conquistato Tripoli di uomini della Nato. La Nato ovviamente nega qualsiasi «coordinamento» degli attacchi degli insorti nella loro offensiva verso Tripoli (126 raid aerei nella sola giornata di domenica): «La Nato non ha e non avrà truppe a terra», ha ribadito ieri la portavoce Lungescu. Idem l’italiano La Russa, ministro della difesa, «Non c’è nessuna probabilità che truppe di terra della Nato, e particolarmente italiane, entrino a far parte del conflitto» in Libia. Anche il sito israeliano Debka, vicino al Mossad e quindi da prendere con le molle, sostiene che «nonostante i dinieghi, le truppe Nato stanno partecipando nei combattimenti a terra nella veste di “consiglieri militari» inglesi e francesi, membri delle unità speciali, aiutando i ribelli libici a combattere per il controllo della capitale Tripoli».
Ma la vera campagna di Libia comincerà dopo l’uscita di scena definitiva di Gheddafi, questo lo sanno tutti. Per cui si comincia già a ipotizzare uno scenario in cui la Nato continuerà ad avere un ruolo anche nel dopo: «un ruolo di supporto alla Libia se sarà necessario e sarà richiesto»,, anche se ovviamente «il ruolo principale sarà dell’Onu e del gruppo di contatto». A pensare male sa fa peccato?
Intanto però bisogna chiudere la pratica Gheddafi. La Nato, i ministri degli esteri francese Juppé e turco Davutoglu (in visita a Bengasi) confermano che «la missione non è conclusa» e che c’è ancora «da proteggere la popolazione» (quale?). Di questo Juppé ha parlato lunedì in audio-conferenza con i colleghi inglese, americano, tedesco, turco e di qualche paese arabo amico (una riprova del peso dell’Italia nel dopo-Gheddafi). Ora che il dopo sembra arrivato, la diplomazia è in fibrillazione per sventare i timori ricorrenti («L’importante è che la transizione si compia nel rispetto dei diritti umani e della legge basata sulla riconciliazione e non sulla vendetta») e conquistare una posizione migliore nella divisione del bottino. Ieri si è tenuta a Bruxelles una riunione degli ambasciatori Nato; poi sarà la volta del Gruppo di contatto che si riunirà a Istanbul; entro la settimana ci sarà un vertice Onu con partecipazione di Ue e Unione africana.

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