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L’uso politico dell’uragano

Tutto il mondo e tutti i media sono stati inchiodati allo spettacolo che i film del genere “catastrofico” hanno fatto vedere già decine di volte: la fine del mondo ambientata a New York. A 10 anni quasi esatti dall’11 settembre, la scena si ripete, ma in sicurezza. Come lì veniva pagato il prezzo di una scarsa attenzione per le capacità di certi nemici (a lungo allevati nel proprio seno), con l’immagine di George Bush junior che riprende a leggere il suo libro per bambini dopo averne ricevuto notizia, così oggi la capacità di previsione e di risposta vengono esaltate oltremisura.

Non importa che, nella sua marcia verso il nord degli Usa l’uragano Irene sia stato declassato dal grado 4 al grado 1. Il “pericolo” serve a dimostrare che il paese è saldo, in mani esperte, che hanno a cuore la sicurezza dei cittadini.

Non è sorprendente, e non è “tipicamente americano”. Ogni classe dirigente fa lo stesso, oscillando magari tra il vacuo “va tutto per il meglio” e “il nemico è alle porte”. Tutto, ma che la popolazione non pensi e non dubiti.

Ciò che è invece “tipicamente americano” è il declino dell’iperpotenza. Percepibile e percepita stavolta anche dal “cittadino medio”, che vede infrangersi il “sogno” del progresso continuo, della missione divina riservata all'”our country”.

Dare risposte alle cause di questo declino è davero complicato. Praticamente imposibile. Il capitalismo crea e distrugge egemonie globali. E’ accaduto alla piccola Olanda commerciale regina dei mari, poi all’Inghilterra della rivoluzione industriale (e regina dei mari). Ora sta accadendo agli Stati Uniti della rivoluzione informatica e della finanza creativa (e signori dei cieli). E’ naturale, ma non può essere ben accetto. Scatena reazioni varie, tutte a loro modo “radicali” mentre il potere politico imperialista è costitutivamente “centrista” e mediatore al proprio interno (non certo con chi rimane fuori dal cerchio magico). Tendenziamente disgregatrici.

L’uragano è un’occasione ed è stata colta. Hollywoodianamente, esagerando con compostezza i pericoli. Il paese “si prepara”, il paese è compatto, il paese ha una guida sicura, non come quel deficiente di Bush junior davanti a Katrina. Irene diventa la prova che Obama “ci sa fare” meglio. O, almeno, questa è la speranza. Non solo di un presidente in crisi di consensi, ma di un intero establishment che non riesce a trovare la strada per impedire il declino.

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ore 18. A riprova che si è trattato di un “allarme mobilitante”, più politico che atmosferico, ecco qui testimonianze di “non americani” raccolte persino dalle agenzie “normali”.

I turisti riconquistano Time Square. «Un giorno piovoso a Londra è peggio che quello che abbiamo visto qui» afferma un turista inglese a passeggio. Anche a Brooklyn, una delle zone evacuate, torna la normalità. Anche se alcuni alberi divelti chiudono alcune strade, i caffè riaprono. «È stata meglio del previsto» afferma una passante a caccia di uno Starbucks: quello a cui solitamente si serve è «inspiegabilmente», a suo avviso, ancora chiuso. «Temevamo il peggio ma in realtà ci è sembrata solo una forte pioggia estiva» affermano Marianna e David, turisti spagnoli in vacanza a New York, minimizzando il passaggio della tempesta tropicale Irene. «Però abbiamo fatto foto storiche. Questa mattina alle nove eravamo a Times Square: eravamo completamente soli e ora siamo venuti qui a Battery Park. Il paesaggio è incredibile, non ci dimenticheremo questa vacanza».

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Immanuel Wallerstein

Le conseguenze mondiali del declino statunitense
La radici sono naturalmente economiche, ma il paese reagisce malissimo alla perdita dell’idea di sé come «nazione eletta» in missione per conto di dio

Un decennio fa, quando io e alcuni altri parlavamo del declino statunitense, incontravamo nella migliore delle ipotesi un sorriso di sufficienza per la nostra ingenuità. Gli Stati Uniti non erano forse l’unica superpotenza impegnata nei più remoti angoli della terra, capace di averla sempre vinta? Questa era l’opinione condivisa da tutto lo spettro politico.
Oggi quella del declino, del grave declino degli Stati Uniti, è una banalità. La sostengono tutti, tranne alcuni politici statunitensi che temono di essere accusati del problema se ne discutono. Ma la verità è che oggi pressoché tutti sono convinti della realtà del declino. Quello di cui si è discusso molto meno è quali siano state e quali saranno le sue conseguenze mondiali. Il declino ovviamente ha radici economiche, ma la perdita del quasi-monopolio del potere geopolitico un tempo esercitato dagli Usa ha conseguenze politiche di notevole portata un po’ ovunque.
Partiamo da un aneddoto riferito nella Business Section del The New York Times il 7 Agosto. Un consulente finanziario di Atlanta «ha premuto il pulsante antipanico» per due ricchi clienti che gli avevano chiesto di vendere tutte le loro azioni e comprare un fondo comune di investimento un po’ protetto. L’agente ha sostenuto che, in 22 anni di lavoro nel campo non gli era mai capitato di ricevere una simile richiesta. «Un episodio senza precedenti». Il giornale aveva definito la cosa come l’equivalente per Wall Street dell’«opzione nucleare». Andava contro il consiglio santificato di rispettare il piano d’investimento prescelto malgrado le oscillazioni del mercato.
Standard & Poor’s ha declassato il credito degli Stati Uniti da AAA ad AA+, anche questo un fatto «senza precedenti». Ma si tratta di un’azione tutto sommato blanda. L’equivalente agenzia in Cina, Dagong, aveva già declassato il credito americano nel Novembre scorso ad A+, e adesso l’ha ridotto ad A-. L’economista, Oscar Ugarteche, ha dichiarato gli Stati Uniti una «repubblica delle banane». Ha detto che gli Usa «hanno scelto la politica dello struzzo sperando in tal modo di non annichilire le speranze ». E a Lima la settimana scorsa i ministri delle finanze degli stati del Sudamerica si sono riuniti per discutere con urgenza di come isolarsi meglio dagli effetti del declino economico statunitense. Il problema è che è molto difficile per chiunque isolarsi dagli effetti del declino degli Usa. Malgrado la gravità della loro decadenza economica e politica, gli Stati Uniti restano un gigante sulla scena del mondo, e qualunque evento su quella scena ancora produce grosse onde in tutto il resto del pianeta.
Certo il maggior impatto del declino Usa si avverte, e così continuerà ad essere, negli Stati Uniti stessi. Politici e giornalisti parlano apertamente della «disfunzionalità» della situazione politica statunitense. Ma come potrebbe non essere disfunzionale? Il fatto più elementare è che i cittadini degli Usa sono sconcertati dal dato stesso del declino. Non è solo che i cittadini soffrono materialmente per quel declino, e sono spaventati all’idea di dover soffrire ancora di più in futuro. Il fatto è che hanno creduto fermamente che gli Stati Uniti fossero la «nazione eletta» scelta da Dio o dalla storia per essere il modello del mondo. E il presidente Obama continua a ripetere loro che gli Usa sono un paese «tripla-A».
Il problema per Obama e per tutti i politici è che ormai solo pochissimi ancora ci credono. Lo shock per l’orgoglio nazionale e per l’immagine di sé è formidabile, ed è anche improvviso. E il paese sta reagendo malissimo. La popolazione cerca capri espiatori e si scaglia selvaggiamente – e senza troppa intelligenza – contro le parti presunte colpevoli. L’ultima speranza sembra essere quella di dare la colpa a qualcuno, il che permetterebbe di trovare un rimedio cambiando la gente al potere.
In generale, è sulle autorità federali che si punta il dito – il presidente, il Congresso, i due maggiori partiti. È molto forte la tendenza a chiedere più armi a livello individuale e una riduzione dell’impegno militare statunitense fuori del paese. Buttare tutta la colpa su chi sta a Washington porta a una volatilità politica e a lotte intestine ancora più violente. Gli Stati Uniti oggi sono, direi, una delle entità politiche meno stabili del sistema-mondo.
Questo rende le lotte politiche interne disfunzionali e fa degli Stati Uniti un paese incapace di esercitare vero potere nel mondo. Di conseguenza si assiste a una grave caduta di fiducia nei confronti degli Usa e del loro presidente da parte dei paesi stranieri tradizionalmente alleati degli americani e della base politica del presidente in patria. I giornali sono pieni di analisi degli errori di Barack Obama. Chi può dare loro torto? Potrei facilmente elencare decine di decisioni prese da Obama che a mio parere erano erronee, codarde e qualche volta decisamente immorali. Ma mi domando: se avesse preso le decisioni tanto migliori che la sua base ritiene avrebbe dovuto prendere, avrebbe davvero fatto tanta differenza? Il declino degli Usa non è il risultato delle decisioni improvvide del suo presidente, ma delle realtà strutturali del sistema-mondo. Obama può ancora essere l’uomo più potente del mondo, ma nessun presidente degli Stati Uniti è o potrebbe essere potente come quelli di un tempo.
Siamo ormai in un’era di fluttuazioni acute, rapide e costanti – nei tassi di cambio delle valute, in quelli di occupazione, nelle alleanze geopolitiche, nelle definizioni ideologiche della situazione. La rapidità e la portata di quelle fluttuazioni produce l’impossibilità di fare previsioni sul breve periodo. E senza una certa ragionevole stabilità sulle previsioni di breve periodo (tipo tre anni), l’economia-mondo è paralizzata. Tutti dovranno essere più protezionisti e introspettivi. E il tenore di vita scenderà. Non è un bel quadro. E anche se ci sono tantissimi aspetti positivi per molti paesi proprio per via del declino Usa, non è affatto detto che – nei violenti sballottamenti della barca dell’economia mondiale – altri paesi riusciranno davvero a trarre il profitto che sperano di trarre dalla nuova situazione.
È giunta l’ora di dedicarsi ad una ben più sobria analisi sul lungo periodo, di dare giudizi morali più chiari su quello che l’analisi rivela, di una ben più efficace azione politica negli sforzi dei prossimi 20-30 anni per creare un sistema-mondo migliore di quello in cui oggi siamo tutti impantanati.
traduzione di Maria Baiocchi

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Sarah Jaffe
E l’altra Sei anni fa, Katrina: analogie e differenze tra l’uragano che sconvolse New Orleans e mise a nudo gli Usa, e quello che si sta abbattendo su New York A VOLTE RITORNANO Nel 2005 la giornalista Sarah Jaffe viveva a New Orleans. Oggi vive a New Yor
Affrontare un uragano, roba da ricchi

In questo periodo dell’anno non riesco a evitare di pensare all’uragano Katrina. Sono passati ormai sei anni da quando gli argini crollarono ma ogni anno, quando si avvicina la fine di agosto, sento arrivare l’anniversario. E in questo momento è ancora più difficile non pensare a Katrina, mentre l’uragano Irene avanza minaccioso verso la Costa orientale, puntando dritto verso il mio nuovo appartamento di New York.
Comprare acqua, batterie e candele, fare programmi dell’ultimo minuto con gli amici prima che la metropolitana chiuda, assicurarmi di avere cibo a sufficienza per il cane e alimenti non deperibili nel caso per qualche giorno manchi la corrente mi fa tornare in mente la paura che ebbi a New Orleans, dove ho vissuto tra il 1998 e il 2002. Allora prendemmo il pericolo sottogamba: la maggior parte di noi non aveva macchine, né denaro disponibile, né posti dove andare. Katrina ha cambiato il modo di pensare di tutti noi, ex cittadini di New Orleans che dai televisori sparsi nel paese e nel mondo osservammo terrorizzati la nostra amata città sommersa dall’acqua che non aveva dove defluire. Restammo inorriditi dal nostro atteggiamento altezzoso nei confronti degli uragani.
Sono passati sei anni e ora vivo in un’altra grande città con una popolazione che non ha automobili (il 55% dei newyorchesi, contro il 27% degli abitanti di New Orleans). Anche se il tuo sindaco miliardario la dichiara obbligatoria, l’evacuazione non è facile e con lo stop completo al trasporto pubblico, New York si fermerà. Io comunque ho un cane e senza macchina non posso andarmene. Nel frattempo mi domando chi sarà ritenuto responsabile se resteranno allagati i quartieri poveri, se l’elettricità non ritornerà nel giro di pochi giorni e la gente s’infurierà. Ricordo chi fu accusato di «saccheggi» e a chi venne invece concesso il beneficio del dubbio.
John Seabrook ha scritto sul New Yorker: «Abbiamo associato la morte e le devastazioni causate da Katrina più al fallimento di una leadership politica che alla furia di un grande uragano. Dopo l’11 settembre, gli uragani sembrano meno minacciosi proprio perché è possibile prepararsi al loro arrivo. Si può studiare la loro traiettoria, misurare la loro velocità e prevedere quando toccheranno la terraferma, tutto comodamente dalla propria tana. In un’era di eventi improvvisi che cambiano il mondo in un istante, l’arrivo di un uragano sembra pomposamente vecchio, come un transatlantico che attraversa l’oceano. Ci prepariamo per l’inimmaginabile (o crediamo di farlo) e prendiamo alla leggera ciò che conosciamo. Un giorno forse impareremo, ma non questa domenica».
L’uragano Katrina è arrivato quattro anni dopo l’11 settembre e ha sottoposto gli Stati Uniti a uno shock differente dagli attentati a New York e Washington. Se l’11 settembre è sembrato colpire trasversalmente classi e razze – uccidendo assieme vigli del fuoco e dirigenti aziendali – Katrina ha certamente colpito più duramente i poveri di colore. Mentre guardavamo la tv non potevamo più negare l’evidenza: chi aveva i mezzi fuggiva dalla città mentre chi che ne era privo vi restavano intrappolato, senza che vi fosse alcun piano per salvarli. Abbiamo visto che i quartieri più colpiti erano quelli più poveri, i più vicini agli argini, mentre le famiglie ricche si sono tramandate negli anni le case nella zona alta. Questo ci ha spinto a cambiare le nostre politiche per un po’. Fino a quando è arrivata la crisi economica.
La classe d’appartenenza farà la differenza anche questa settimana a New York. Greg Palast ha scritto che anni fa lavorò a un piano di evacuazione per gli Hamptons, residenza – almeno nei weekend estivi – di «squali dei subprime, dive dei derivati, guru dei media e i loro parrucchieri, le loro mogli-trofei e i loro trofei personal trainer, dei potenti e di quelli che fanno i soldi». Quel piano anti-uragano era spesso sei volumi. New Orleans – ha aggiunto Palast – per Katrina non aveva pronto nulla di simile. «Dopo che 2000 persone erano annegate, ho trovato il “piano”: nessun piano per i 27mila residenti sprovvisti di auto. Non c’è da sorprendersi: chi aveva ricevuto l’appalto non aveva alcuna competenza nelle evacuazioni anti-uragani. Al contrario il capo della Iem (Innovative Emergency Management, ndt) aveva molta esperienza nel finanziamento del Partito repubblicano». Ovviamente, migliaia di appartamenti di edilizia popolare in seguito furono demoliti e rimpiazzati da condomini di lusso.
Il sindaco Bloomberg vuole che i newyorchesi sappiano che è una cosa seria, quindi il suo staff ha spedito ai cittadini – via twitter – allarmi come questo: «Se siete nella zona A, preparatevi prima possibile all’evacuazione. Non siate noncuranti. Anche se in questo momento splende il sole, non siate sciocchi». Si presume che i newyorchesi siano rassicurati da messaggi su twitter come questo: «Non abbiamo mai fronteggiato un’evacuazione obbligatoria finora e non la faremmo ora se non pensassimo che l’uragano è pericoloso». Ma su nessun avviso di evacuazione obbligatoria apparsi sulla stampa ci sono istruzioni su come andarsene senza un mezzo di trasporto. La brochure del comune elenca cose utili, tipo cosa dovresti impacchettare, ma non come fuggire. E i prigionieri? Beh, loro sono bloccati: il carcere di Rikers Island non sarà evacuato.
Nona Willis Aronowitz sostiene: «…in un posto come New York, dove gli uragani non si verificano praticamente mai, la tua salvezza dipende dal tuo accesso alle informazioni. In North Carolina, Louisiana e Florida i cittadini tengono le orecchie ben aperte, ma come informare la gente in un posto dove l’ultimo vero uragano è arrivato nel 1938? Vivo in un palazzo modesto in un’area modesta e sono pronta a scommettere che molti dei miei vicini non hanno internet. Se quel giorno sceglieranno di non guardare il telegiornale, quando salterà la corrente se la vedranno brutta».
Questa settimana il Nordest ha già sperimentato un raro disastro. Il breve boato del terremoto in Viginia (5,8 gradi) avvertito in diversi Stati doveva ricordare ai newyorchesi che tutto può accadere, ma al contrario sembra quasi aver rafforzato la loro sensazione di invincibilità, come hanno rilevato immediatamente le barzellette sarcastiche apparse su twitter.
Sei anni dopo, a New Orleans è ancora tempo di ricostruzione. Dopo l’uragano, è diventata una città più piccola e più bianca, ma anche quartieri come il disastrato Lower Ninth Ward si stanno riprendendo, sebbene lentamente. La città ha appena annunciato l’arrivo di 45 milioni di dollari di fondi federali per riparare le strade nei distretti ancora danneggiati dagli allagamenti. I residenti si sono organizzati tra loro e hanno favorito la ricostruzione, secondo USA Today. «La solidarietà tra appartenenti a diversi gruppi economici sprigiona una forza che può fare la differenza», ha detto al giornalista Rick Jervis, Allison Plyer, della Greater New Orleans community data center. Ma alcuni quartieri sono ancora vuoti, con le assi alle finestre e i pochi residenti abbandonati senza servizi. Un programma federale per innalzare le case al di sopra delle acque delle inondazioni è stato macchiato da frodi e il crimine resta un problema in una città che aveva poche ragioni di aver fiducia nella polizia anche prima dell’uragano. L’incriminazione di quattro agenti accusati di aver sparato a due afro-americani nei giorni successivi all’uragano ha rappresentato una buona notizia ma anche una dolorosa conferma di come la gente sia stata trattata in maniera diversa nel dopo-uragano.
Harry Shearer, l’attore noto per il ruolo interpretato in Spinal tap e per la sua voce prestata ai Simpsons, ha fatto un nuovo documentario, «The big uneasy», che spiega bene quale sia il punto: Katrina non è stato un disastro naturale. Si è trattato al contrario di una tragedia verificatasi perché gli argini hanno ceduto, perché non erano stati fabbricati bene né la loro manutenzione era stata effettuata correttamente, in modo da impedire all’inondazione di raggiungere la città. E una volta che il catino che è New Orleans si è riempito, il sistema non è riuscito nemmeno a pompare fuori le acque. Discutendo del suo film, Shearer ha detto: «La gente a volte parla del crollo degli argini en passant, come se sia stato il risultato naturale di un uragano come Katrina. Sono ancora poco conosciuti i risultati delle due inchieste indipendenti che hanno rivelato che, se non fosse stato per quel sistema di protezione, progettato e costruito male, Katrina avrebbe al massimo bagnato le caviglie di New Orleans».
Irene sta mirando alla Costa orientale, non a New Orleans. Ma la stagione degli uragani non è finita e mentre ci prepariamo a ripulire le devastazioni di Irene dovremmo ricordarci che ci sono ancora dubbi sulla capacità degli argini di fronteggiare le tempeste. Dovremmo conoscere i piani delle nostre città contro i disastri e prendere nota di come e dove non funzionano. Dobbiamo ricordarci, soprattutto, che i disastri non piombano allo stesso modo sulla testa di tutti. Che la nostra sicurezza può non essere minacciata, ma quella degli altri sì.
da www.alternet.org
traduzione michelangelo cocco
da “il mnifesto” del 28 agosto 2011

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