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11 settembre. La Storia e le storielle

Non lo sono per l’Europa, che scopre solo ora di esser corsa dietro a interessi altrui gabellati per universali. E nemmeno per i “musulmano combattenti”, che si sono rivelati capaci di far male all’Occidente ma non di contrapporgli un’alternativa interessante almeno per i correligionari.

Non ci piacciono le dietrologie e cerchiamo di capire i processi nella loro dimensione reale, con tutte le contraddizioni che sollevano, macinano, distruggono e ricreano.

Per stimolare una riflessione non stereotipa, proponiamo questo pezzo apparso addirittura su Il Sole 24 Ore, di uno degli osservatori più attenti e acuti del mondo fuori dal nostro orizzonte culturale. A seguire, lo specialista di geopolitica e antimperialismo de “il manifesto”, Tommaso Di Francesco.

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Le gravi amnesie che avvolgono l’11 settembre

di Alberto Negri

Gli anniversari pongono a volte questioni fuorvianti. Ci si chiede ripetutamente come è cambiato il mondo dopo l’11 settembre, un evento paragonato per la sua portata alle guerre mondiali del secolo precedente. Ma questa è la prospettiva tipica della nostra epoca che vive gli eventi sull’onda emozionale che ne danno i mass media. Di singolare e unico nell’11 settembre c’è il fatto che gli Stati Uniti furono colpiti al cuore, in casa, a New York e Washington. Altrimenti Bin Laden, i talebani e l’Afghanistan sarebbero rimasti una questione da specialisti, ignorati come lo erano stati nel decennio precedente.

Nel ’95 “Limes” mi chiese un articolo sull’Islam radicale: scelsi come argomento i mujaheddin afghani e Osama Bin Laden che Robert Fisk, il segugio dell’Independent, aveva intervistato qualche mese prima. Né l’articolo di Fisk né a maggior ragione il mio avevano sollevato il minimo interesse. Non ebbe maggior fortuna il più famoso orientalista contemporaneo, Bernard Lewis, che su “Foreign Affairs” avvertiva che Osama aveva dichiarato guerra all’America. Qualche mese dopo l’articolo di Lewis, Bin Laden fece saltare le ambasciate Usa a Nairobi e Dar es Salam: era il 7 agosto del 1998, tre anni prima delle Due Torri.
Ma anche allora i dirigenti americani e buona parte dell’Occidente continuarono a guardare da un’altra parte. Questo vale anche per gli eventi del passato recente. La verità è che vogliamo dimenticare in fretta tutto quanto non è sostenuto da un adeguato apparato di propaganda mediatico: le guerre balcaniche, la guerra del Golfo degli anni ’80, i massacri in Algeria degli anni Novanta. Amnesie gravi che si sovrappongono in una stratificazione che definirei semplicemente beata ignoranza.

Vedrete che pure nel caso della Libia saremo presto costretti a rinfrescarci la memoria sulle stragi degli innocenti avvenuti negli anni scorsi da queste parti per spiegare cosa potrebbe accadere in un prossimo futuro. Un avvisaglia sono i pogrom contro i neri del Sahel a Tripoli che riecheggiano esattamente quelli del 2000 e dei decenni precedenti: quando non sai come risolvere i tuoi guai e prendere atto della realtà, cioè che i killer di Gheddafi erano i tuoi fratelli, devi trovare un capro espiatorio.
Del resto la prima immagine dell’11 settembre che mi viene in mente è la faccia smarrita di Bush al quale annunciano l’attacco mentre legge fiabe in una scuola della Florida: “Cosa pensa dei Taleban?”, gli chiese un giornalista durante la campagna elettorale: “Li conosco benissimo, sono un gruppo rock”. Capite bene in che mani siamo stati.
Ma le emozioni sono più forti dei ragionamenti. Dieci anni fa il 15 settembre 2001 mi trovavo sul Khyber Pass al confine tra Pakistan e Afganistan nel tentativo, vano, di attraversare la frontiera in uno di quei momenti che sembrano costituire delle svolte storiche immancabili per un inviato.

Cinque mesi prima ero salito nello stesso punto della North West Frontier, l’area tribale pashtun, a scrivere un articolo che come altri aveva poche probabilità di essere letto: passata la furia iconoclasta dei talebani sui Buddah di Bamyan, questi argomenti non suscitavano interesse.
Fu per un’impuntatura profetica del capo servizio esteri che mi trovavo lassù: voleva sapere tutto di Pakistan e Afghanistan. A Kabul il regime dei talebani mi apparve come una compagine dal pugno di ferro e dalla lama affilata ma senza alcuna esperienza di governo o di relazioni internazionali: l’ex traduttore dell’ambasciata italiana, un professore di tendenze laiche, era vestito con un turbante sgargiante arancione e faceva il gran ciambellano ricevendo le delegazioni straniere perché era uno dei pochi rimasti che praticasse lingue straniere.
Non so neppure bene perché conclusi l’articolo del 13 maggio 2001 con una frase di Churchill: “Ogni uomo qui è guerriero, politico, teologo”. E aggiunsi: “Forse è un mondo un po’ troppo complesso da afferrare per un Occidente di teleutenti distratti”.

Un mondo complesso e pieno di amare sorprese: l’11 settembre aprì una voragine di conoscenza che fino ad allora avevo colpevolmente ignorato. Improvvisamente sugli schermi mondiali apparve un popolo di esperti di Afghanistan e di Islam: per fortuna non vidi e ascoltai quasi nulla perché in genere sono assolutamente inservibili quando si tratta di portare a casa la pelle. Per conoscere questi posti e la loro gente occorre anche andarci, consumare le suole della scarpe e avere fortuna. Passai oltre un mese in Pakistan e poi arrivai a Kabul mentre i talebani scappavano dalla capitale ma restavano intorno quasi ovunque: trucidarono due cari amici giornalisti al Passo di Sarubi e oggi continuano ad ammazzare i soldati italiani e della Nato.

Cosa è cambiato in Afghanistan da allora? Non tanto. A parte la retorica che stiamo portando la civiltà da quelle parti, non molto dissimile da quella coloniale del secolo scorso. Numerosi afghani sono anche grati per quello che facciamo ma prima di tutto ci criticano e guardano i militari come stranieri in armi che occupano il loro Paese. Possiamo essere utili quando costruiamo strade, scuole e altro ma non per questo si trattengono dall’uccidere i soldati occidentali.
Ci facciamo le stesse domande che si ponevano i francesi in Algeria e ricorriamo agli stessi usurati argomenti per giustificare la nostra presenza. Non è un caso che nel 2005 il dipartimento di Stato americano mi mandò un invito per assistere a una visione riservata ai giornalisti della “Battaglia di Algeri” di Pontecorvo _ che qui in Italia conosciamo fin da ragazzi _ e si rispolverarono tutti i manuali della controguerriglia: anche il generale Petraeus, tra Iraq e Afganistan, ne scrisse uno.

Incontriamo una cultura diversa, tradizionale, conservatrice, ma anche capace di improvvisi e rapidi adattamenti alla modernità: non è soltanto uno scontro di civilizzazioni ma qualche cosa di differente. E ne sappiamo assai poco: come scrisse il francese Romain Gary 30 anni fa, prima di uccidersi, “da qualche parte del mondo sta dando i primi vagiti una civiltà sconosciuta e noi lo ignoriamo”. Vinse il premio Goncourt due volte, sempre sotto pseudonimo, e l’ultima da morto.
Non si può tra l’altro rispondere a interrogativi sull’11 settembre nel mondo arabo-musulmano senza considerare la guerra in Iraq. Una situazione ha condizionato l’altra. Con la decisione di abbattere Saddam Hussein gli Stati Uniti avevano aperto un altro fronte mediorientale sottraendo truppe all’Afghanistan e calamitando la presenza di Al Qaeda in Mesopotamia. Questo è uno dei motivi per cui l’11 settembre e le sue conseguenze non sono finite: gli Stati Uniti si sono trovati impantanati in un altro conflitto che non si è ancora concluso. A meno che non vogliamo ignorare gli attentati che quotidianamente scuotono le città irachene.

Ma quello che conta sono gli effetti geopolitici. L’11 settembre e la guerra in Iraq non hanno portato i risultati che si proponevano gli americani. Diventare i guardiani dell’Asia centrale nel punto di raccordo degli interessi di Russia, Cina, India, Pakistan, un quadrilatero atomico, all’incrocio delle risorse strategiche e dei nuovi poli dello sviluppo economico globale. L’Afghanistan resta fuori controllo ma anche il Pakistan, potenza nucleare, che rappresenta il vero nodo dell’Af-Pak, un problema per gli americani forse più intrattabile dei talebani.
A questo si aggiunge quanto è avvenuto in Iraq e dintorni: Bush jr. si proponeva di rifare la carta del Medio Oriente e non ci è riuscito. Le transizioni che vediamo nella regione sono state dovute a fenomeni interni dove gli Stati Uniti non hanno avuto un ruolo. Non solo. L’attuale governo iracheno, caratterizzato da una preponderante maggioranza sciita, è fortemente influenzato dall’Iran mentre prima Teheran, sotto la dittatura di Saddam, era fuori dal gioco. Era per mantenere questo obiettivo che le monarchie sunnite del Golfo avevano finanziato otto anni di guerra del rais contro Khomeini: emarginare gli sciiti e l’Iran dal potere a Baghdad. Il prezzo era stato un milione di morti. Quando nel mondo arabo si parla di 11 settembre il collegamento a questi eventi che lo hanno preceduto è immediato mentre da noi appaiono come uno sfondo confuso e ribollente.

Gli Stati Uniti hanno ottenuto il contrario di quello che pensavano: fare dell’Iraq un saldo Paese alleato. Una delle conseguenze più clamorose è che il governo iracheno appoggia l’Iran nel sostegno alla Siria di Bashar Assad. Mentre la Turchia, bastione storico della Nato, sostiene l’opposizione al regime di Damasco ma si scontra pure con Israele per leadership nel Mediterraneo orientale. Tutto questo fuori da ogni decisione presa a Washington.
Come si vede le conseguenze dell’11 settembre vanno ben al di là di una data. In sostanza l’Afghanistan e l’Iraq sono stati due fallimenti: si sono abbattuti dei regimi nemici, ostili all’Occidente, ma non si controlla la situazione. Non solo, gli Stati Uniti pur avendo migliaia di uomini sul terreno, 50mila in Iraq e 130mila in Afghanistan, non sembrano in grado di condizionare quanto avviene nel mondo arabo. Anzi proprio questo logorante impegno militare dal quale il presidente Obama vuole uscire ha incoraggiato i popoli arabi alla ribellione: non c’era più il timore, dopo due disastri, di un nuovo intervento americano.

Così in Tunisia ed Egitto, un decennio dopo le Due Torri, hanno abbattuto da soli i loro dittatori che per inciso rappresentavano degli alleati storici dell’Occidente. Il democratico Obama, che aveva fatto dei grandi discorsi sulla democrazia in Medio Oriente, ha balbettato per settimane su cosa si dovesse fare in Egitto per decidere poi la mossa più saggia: stare a guardare il crollo di Mubarak.
Il fallimento dell’11 settembre dal punto di vista geopolitico_ cioè l’incapacità americana di vincere la pace oltre alla guerra _ha avuto un benefico effetto sul mondo arabo: nessuno ha più paura dell’America. Per questo sia in Tunisia che in Egitto non ci sono stati slogan avversi nei confronti degli Stati Uniti o di Israele: la gente in piazza Tahrir sapeva che non contavano più nulla nel determinare il loro destino, l’11 settembre 2001 era davvero lontano.
Affacciato su quella piazza del Cairo diventata l’emblema delle rivolte arabe vedevo i marines sul tetto dell’ambasciata americana guardare con il binocolo quanto accadeva sotto: erano il simbolo dell’inutilità americana.

Questo tra l’altro non significa che i Paesi arabi in transizione e che si stanno liberando dei dittatori diventeranno alleati o amici senza condizioni degli americani e dell’Europa. Vogliono sganciarsi anche dai vecchi schemi con i quali i raìs si tenevano al potere: quel patto con il diavolo che aveva assicurato a degli autocrati senescenti un sorta di immortalità. I dittatori arabi facevano quello che diceva l’Occidente, cioè tenere a bada gli islamisti e controllare le risorse energetiche, e loro in cambio potevano massacrare ogni tipo di opposizione.
Certo dopo questi autocrati non sappiamo esattamente cosa troveremo. I nuovi leader possono riservare delle sorprese e anche qualche vecchia conoscenza.
L’attuale comandante militare della piazza di Tripoli, Abdul Hakim Belhadj, era l’emiro del Gruppo islamico combattente, organizzazione affiliata ad Al Qaeda che negli anni ’90 condusse la guerriglia in Libia contro Gheddafi partendo delle montagne alle spalle di Derna in Cirenaica. Belhadj fu catturato dagli servizi britannici in Thailandia, consegnato agli uomini del Colonnello nel 2004 e rilasciato quattro anni più tardi: oggi, con l’aiuto indispensabile dei raid della Nato, Belhadj è il re di spade a Tripoli. Ex mujaheddin in Afghanistan, Belhaj incontrò Bin Laden un anno prima dell’11 settembre, anniversario sul quale l’ex jihadista glissa le domande.

Mai dire mai: gli al qaedisti di ieri, sopravvissuti al loro ispiratore Bin Laden e magari adeguatamente aggiornati alle istanze popolari e “democratiche” delle rivolte arabe, potrebbero diventare i dirigenti di domani. In Libia come in Yemen, in Somalia o in Siria.
Il caso della Libia è forse quello più interessante da esaminare nello spettro delle conseguenze più o meno dirette dell’11 settembre. Nel mezzo di una crisi economica e finanziaria senza precedenti, dovuta anche alle guerre intraprese negli anni scorsi senza ottenere i dividendi strategici sperati, gli Stati Uniti hanno deciso di tagliare i costi, ritirarsi da alcune aree e di far pagare ai loro alleati le prossime guerre.
Hanno così appoggiato l’iniziativa francese per far crollare Gheddafi ma dopo un paio di settimane hanno tenuto a terra i cacciabombardieri, prolungando in questo modo il conflitto. La Francia ha quindi coperto circa il 30-40% delle spese dei raid aerei sulla Libia: nonostante le smentite del governo francese appare del tutto credibile che i ribelli di Bengasi abbiamo promesso a Parigi il 35% dei futuri contratti petroliferi.
Con la guerra di Libia, dal sapore vagamente coloniale, gli Usa si sono defilati e hanno chiamato i loro alleati a prendersi responsabilità politiche militari ed economiche nei cambi di regime in questa parte del Mediterraneo. Pure questa è una conseguenza dell’11 settembre sul mondo arabo e su di noi. Può essere anche positivo: la sponda Sud, anche se la Germania non è d’accordo, è parte integrante degli interessi strategici della Nato e dell’Unione europea.

La data che ricordiamo ha avuto grandi effetti sul mondo ma per un concatenamento di eventi e di situazioni che l’hanno preceduta e seguita, a volte non strettamente correlati con l’11 settembre. Ma se non scandagliamo a fondo questo contesto rischiamo che questo anniversario significhi soltanto che siamo diventati più vecchi, meno potenti e forse un poco più poveri di dieci anni fa. E non più saggi e consapevoli.
Non posso però evitare di ricordare cosa è stato davvero questo decennio per l’umanità che mi è passata davanti. Ho visto intere città come Baghdad distrutte, con la vita di milioni di persone sconvolta, centinaia di migliaia di vittime e di profughi, che sono ancora in cammino per tornare a casa o diretti in qualunque altro luogo lontano da guerre e carestie. Continuo a vedere morti in attentati e violenze quotidiane: per questa gente l’11 settembre è una data come le altre, un giorno uguale agli altri.

Per il mondo arabo forse è più significativo il 17 dicembre 2010 quando in oscuro villaggio della Tunisia interna, Sidi Bouziz, si diede fuoco Mohammed Bouazizi, giovane disoccupato 26 anni: la notizia allora comparve in poche righe di agenzia e non venne neppure riportata sui giornali occidentali.
Il livello di ascolto su quanto accadeva nelle strade del mondo arabo, a due passi da casa nostra, era bassissimo ma c’era un rumore di fondo sordo, rabbioso, che esprimeva il dolore e la frustrazione di intere generazioni presenti e passate. La tempesta che si è abbattuta non è soltanto un cambio di regime ma anche il parto difficile di Paesi che cercano faticosamente di diventare nazioni nuove e diverse da prima. Ma tra un decennio, nel 2020, ci ricorderemo ancora di Mohammed e del suo gesto?

5 settembre 2011

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Tommaso Di Francesco
DIECI ANNI DOPO
Perché le Due Torri bruciano ancora

Oggi, 11 settembre 2011, avrebbe dovuto essere la data ideale per una celebrazione sempre più rituale e distante dell’attacco alle Torri gemelle di dieci anni fa. Tanto più che Osama bin Laden, il nemico numero uno, è stato ucciso. E trionfa il pensiero corrente, unico e politicamente corretto, sparso a bracciate da Bernard Henri-Lévy, il consigliere militare anglofrancese ancorché “nuovo filosofo”, che vuole che Al Qaeda, la jihad internazionale del terrore e l’integralismo islamico, siano stati sconfitti insieme dall’Occidente e dall’islam moderato. CONTINUA|PAGINA6 A questo abbiamo ridotto la complessità della primavera nel mondo arabo: a rassicurante sgravio di coscienza per i nostri sensi di colpa. E invece, proprio per effetto degli sviluppi delle cosiddette rivolte arabe, la ferita dell’11 settembre 2001 torna nella sua evidenza di vulnus non rimarginabile nel corpo dell’America e dell’Occidente tutto. Parliamo della precipitazione della crisi in Egitto e della nuova configurazione del potere in Libia, il tutto nel contesto della crisi-voragine del modello produttivo e finanziario delle economie capitalistiche globali.
Al Cairo torna ad esplodere nel sangue piazza Tahrir, la stessa che ha detronizzato il faraone Mubarak ora sotto processo, l’uomo che è stato il garante degli interessi occidentali, dei confini con Israele, cioè della pace armata in Medio oriente. Piazza Tahrir era finora sospesa: da una parte i movimenti sotterranei della contestazione giovanile e sociale, dall’altra i militari che presidiano la «transizione» e i Fratelli musulmani che accumulano credibilità, formalmente come unico partito organizzato e alternativo al vecchio potere. In queste ore al Cairo è nuovamente esplosa la rabbia popolare contro i militari e contro le provocazioni armate di Israele, primo beneficiario dello status quo che Mubarak garantiva. Senza dimenticare che in questo settembre la leadership palestinese chiederà all’Onu il riconoscimento dello Stato di Palestina. Ed ecco che un nodo irrisolto ma presente nel sentimento e nella formazione dei giovani arabi torna incandescente e sfugge di mano alle cancellerie occidentali.
In Libia, dove ad una iniziale rivolta popolare si è sovrapposto un colpo di stato strisciante dentro il regime di Gheddafi, accade qualcosa di più paradossale. Abdel Hakim Belhaj, l’uomo che ha in mano il potere militare di Tripoli e che controlla la maggior parte delle milizie insorte che hanno combattuto e che continuano a combattere, altri non è che un ex rappresentante di Al Qaeda che dichiara di avere alla fine detto no a Osama bin Laden, per occuparsi meglio della Jihad in Libia e nel Maghreb.
E ora Belhaj accusa Stati uniti e Gran Bretagna per la sua “rendition”, vale a dire per la sua cattura e consegna alle galere gheddafiane. Mentre, tra le rovine libiche, emerge la prova che il nuovo sistema spionistico del regime era allestito e sostenuto da tecnologie e intelligence coordinate già nel 2007-2008 dal governo francese (Sarkozy era ministro degli interni). Ecco una riprova di quella «trappola nella quale gli americani sono finiti, da loro stessi allestita quando trenta anni fa decisero di utilizzare i jihadisti per sconfiggere l’Urss», sostiene Lucio Caracciolo nel suo ultimo e bel libro America vs America. Altro che guerra di civiltà.
E veniamo al precipizio della crisi economica mondiale. Pochi mesi fa Barack Obama, nell’anniversario del suo storico discorso del Cairo, tra le altre considerazioni dichiarava: «Quello delle rivolte arabe è un mondo di 400 milioni di persone, per la maggior parte giovani. Ho scoperto che questa realtà ha esportazioni inferiori a quelle della Svizzera». Vale la pena chiedersi: di fronte alla conferma del crack dell’economia globale, contro chi si rivolteranno e a chi si rivolgeranno le masse giovanili arabe, ricche di domande e riempite solo di promesse e miraggi, quando le capitali dell’Occidente alle prese con i disastri interni diranno no alle loro richieste di sviluppo e integrazione? Ora che non c’è più nemmeno il Terzo Mondo?
No, le macerie dell’11 settembre non sono memoria, bruciano ancora. E dietro, drammaticamente, s’intravvede solo la possibilità di una nuova guerra.

da “il manifesto” dell’11 settembre

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