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Israele. Il bulldozer Netanyahu

Michele Giorgio – GERUSALEMME
Colonie, Netanyahu è un bulldozer
Proteste dall’Anp e da varie cancellerie per l’annuncio del governo dello stato ebraico di proseguire con la costruzione di nuovi insediamenti Il primo ministro non fa marcia indietro: «Le nuove case previste a Gilo, nella parte est di Gerusalemme, sono perfettamente legali»

Il Segretario di stato Usa Hillary Clinton ritiene che la decisione di Israele di avviare la costruzione di 1.100 nuove case per coloni nella zona palestinese (Est) di Gerusalemme sia «controproducente». La Cina si dice «rammaricata» mentre Mosca è «molto preoccupata». L’Egitto da parte sua spara a zero sul governo israeliano. «Questa misura illegale rappresenta una nuova ed evidente sfida alla comunità internazionale», ha protestato il ministro degli esteri Mohammed Amr. Persino il governo Berlusconi, alleato stretto di Israele, ha espresso «forte delusione» per la decisione di autorizzare le nuove abitazioni a Gerusalemme Est.
Tante belle frasi per la critica rituale della colonizzazione dei territori occupati palestinesi. Ma nessuno farà un passo concreto per fermarla. A cominciare dagli Stati uniti. Nonostante sia totalmente illegale per la legge internazionale: una potenza militare occupante, Israele, non può insediare popolazione civile in un territorio occupato. Ma a Barack Obama che punta al secondo mandato la legalità internazionale interessa poco. Un sondaggio pubblicato ieri dal Jerusalem Post, rivela che la sua popolarità è in crescita tra gli israeliani ebrei (54% contro il 12% dello scorso maggio) e tra gli americani ebrei che lo avevano abbandonato in massa quando, all’inizio del suo mandato, aveva adottato una linea in apparenza più equilibrata nel Vicino Oriente. Un balzo in avanti frutto del discorso pronunciato da Obama all’Onu il 21 settembre contro l’adesione dello stato di Palestina. Qualcuno lo ha descritto come il discorso più schierato dalla parte di Israele mai pronunciato da un presidente Usa al Palazzo di vetro.
E quando si hanno le spalle ben coperte è normale continuare a fare ciò che si vuole. Il governo del premier israeliano Netanyahu ieri ha respinto le critiche sui suoi programmi d’espansione edilizia a Gerusalemme Est, spiegando che «non contraddice» nessuna precedente proposta di pace. «In ogni piano di pace posto sul tavolo negli ultimi 18 anni, Gilo faceva comunque parte della Gerusalemme ebraica», ha detto un alto funzionario israeliano all’agenzia stampa tedesca Dpa. «La proposta – ha aggiunto il funzionario – non contraddice in alcun modo il nostro impegno per una soluzione con due stati». Poco dopo il vicepremier e ministro dello sviluppo regionale, Silvan Shalom, ha aggiunto che Gilo «non è un insediamento, ma un quartiere di Gerusalemme». Una affermazione contraria alle risoluzioni internazionali che includono Gilo tra gli oltre 150 insediamenti colonici costruiti a Gerusalemme Est e in Cisgiordania dopo il 1967.
Intanto il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove incombe il veto statunitense all’adesione piena dello stato di Palestina, ieri ha formalmente deferito la richiesta presentata dai palestinesi alla commissione competente, in base all’articolo 59 della carta procedurale. La prima riunione della Commissione, che dovrà esprimere la sua raccomandazione al CdS prima di arrivare al voto, si terrà domani. Il rappresentante palestinese all’Onu, Riyad Mansour, ha confermato che la procedura «sta andando avanti passo dopo passo» e si è augurato che i 15 Stati membri del CdS «Approvino la richiesta inviandola all’Assemblea generale». Mansour, che non ha commentato la posizione americana, ha colto l’occasione per denunciare il piano israeliano per la realizzazione dei nuovi alloggi a Gilo. «Questa azione è chiara: Israele ha scelto di dire 1.100 volte “no” alla possibilità di riprendere i negoziati», ha affermato il rappresentante palestinese, facendo riferimento alla condizione più volte ribadita dal presidente dell’Olp e dell’Anp Abu Mazen di un ritorno al tavolo delle trattative solo dopo lo stop completo della colonizzazione. Immediata la reazione dell’ambasciatore israeliano all’Onu, Ron Prosor, che ha definito la questione un «pretesto» per non riprendere il negoziato. Sulla questione dello stato di Palestina è da notare la posizione del Vaticano. Dominique Mamberti, segretario per le relazioni della Santa Sede con gli Stati, martedì ha parlato all’Assemblea Generale dell’Onu riconoscendo come legittima l’aspirazione dei palestinesi e ha richiamato la risoluzione 181 delle Nazioni Unite, del 29 novembre 1947, sulla spartizione della Palestina, che, peraltro, sancisce lo status internazionale di Gerusalemme.
Ma se il fermento diplomatico è forte per la richiesta di adesione all’Onu dello Stato di Palestina, sul terreno non è cambiato nulla. I Territori occupati sono stati sigillati ermeticamente in occasione del Capodanno ebraico mentre nelle carceri israeliane è cominciato lo sciopero della fame di numerosi prigionieri politici palestinesi che protestano contro una serie «misure punitive» adottate di recente nei loro confronti. Fra queste: l’obbligo a vestire una tuta arancione da internati; l’obbligo di sottoporsi alla conta; ed il divieto di seguire i programmi televisivi di emittenti arabe. In prima linea nella protesta si trovano i detenuti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina che chiedono la revoca dell’isolamento del loro leader, Ahmad Saadat, recluso in isolamento da ormai tre anni.

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Tommaso Di Francesco
ISRAELE
Il bimbo cattivo a cui tutto è concesso

Ecco la riprova della disponibilità alla pace di Benjamin Netanyahu. Il governo di estrema destra d’Israele ha annunciato martedì la costruzione nei territori occupati di un mega-insediamento di 1.100 abitazioni per nuovi coloni ebrei a Gilo, nella zona occupata di Gerusalemme. A nemmeno 72 ore dal suo discorso alle Nazioni unite con il quale il premier israeliano respingeva la richiesta di riconoscimento dello stato di Palestina per aprire «invece» ai cosiddetti «negoziati diretti, perché prima la pace poi lo stato».
Una provocazione unilaterale che precipita sulle difficili trattative avviate dopo l’assise dell’Assemblea generale al Palazzo di Vetro e che intanto ridicolizza la diplomazia internazionale. Israele resta – fino a quando? – il bambino cattivo e impunito che può fare quello che vuole, anche aprire l’anticamera dell’inferno di una nuova guerra.
«Sono mille e cento no alla pace, questi sono i nuovi insediamenti annunciati da Tel Aviv», ha dichiarato il portavoce palestinese Saeb Erekat. Peoccupata e come al solito impotente, anche la presa di posizione della Casa bianca, «è controproducente», l’ha definita il portavoce di Barack Obama, che però prepara il veto qualora, non sia mai, al Consiglio di sicurezza «rischiasse» di passare la proposta dello stato di Palestina. Condanna anche la responsabile esteri dell’Ue Ashton, mentre tacciono i mediatori, storicamente assenti, del «Quartetto» che dovrebbe incaricarsi della nuova fase di trattative.
E più si allontana questa prospettiva, più si allontana la pace. Più la Palestina, attraversata da Muri che la dividono, divisa tra Cisgiordania occupata militarmente e Gaza sotto assedio, defraudata della terra e delle risorse a cominciare dall’acqua, con le colture dei contadini distrutte e sradicate, la popolazione sfamata dagli aiuti dell’Unrwa-Onu, è ridotta ogni giorno di più a un colabrodo con le centinaia di insediamenti di coloni ebrei che si moltiplicano cancellando la caratteristica necessaria ad uno Stato, vale a dire la continuità territoriale. Eppure tutti sono consapevoli del fatto che precondizione per ogni passo avanti tra palestinesi e israeliani è il congelamento degli insediamenti. Israele dice ancora una volta no, proprio nel mezzo delle trattative sullo Stato di Palestina. E così facendo allontana pericolosamente da sé la prospettiva tanto desiderata della sicurezza. Perché quando sparirà la possibilità della definizione internazionale della condizione palestinese, ci sarà solo spazio alla rivolta. Con la risposta che prepara la propaganda dell’ultradestra razzista israeliana di Sos-Israel: sparare su chi lancia sassi. Seguendo la storica pratica della repressione della prima Intifada. Ma siamo ormai nella condizione del Medio Oriente diventato, più che mai un vulcano attivo, un terremoto inarrestabile.
A questo punto, più che in ogni altro momento, la questione ci riguarda. Chi marcia per la pace e non vuole certo rappresentare uno stanco rituale annuale, non può stare a guardare. E chi si unisce contro la crisi e porta in piazza la protesta sociale degli «indignati», non può non dare voce alla disperazione palestinese, non può dimenticare che, dentro la crisi globale, anche la pace è un bene comune. E che l’indignazione del Medioriente e dei palestinesi conta quanto se non più della nostra.

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Ika Dano – BEIT SAHOUR (CISGIORDANIA)
Cisgiordania /LO SVILUPPO SOTTO L’OCCUPAZIONE
Una ricerca rivela: l’economia palestinese dipende da Tel Aviv
L’economia palestinese perde in media oltre 2.500 milioni di dollari l’anno, metà del Pil

Duemila 555 milioni di dollari l’anno vengono investiti in Israele da uomini d’affari dei Territori occupati. Sedicimila palestinesi sono in possesso di un lasciapassare per recarsi dall’altra parte del muro: dove l’insieme degli investimenti diretti palestinesi – calcolati su tutti gli intervalli dal 1993 al 2010 – costituiva nel 2009 ben il 60% del totale degli investimenti diretti per Israele.
Più di un milione va nelle colonie israeliane costruite in Cisgiordania. Il 53% delle aziende palestinesi ha un contratto diretto o indiretto con compagnie israeliane: fare affari in Palestina non conviene, tanto che il totale degli investimenti nei Territori occupati è un quinto del capitale che va a finire oltre i checkpoint. L’economia palestinese perde così una media di oltre 2.500 milioni di dollari l’anno, l’equivalente di metà del Pil. Sono questi i risultati dello studio sugli investimenti diretti palestinesi di Issa Smirat, laureato in economia all’università Al Quds di Abu Dis.
Oltre 40 anni di occupazione hanno destrutturato l’economia palestinese, rendendola dipendente da Israele. Nel 1970, pochi anni dopo l’occupazione militare del 1967, il 70% del fabbisogno alimentare palestinese veniva soddisfatto grazie all’agricoltura, che ancora nel 1990 costituiva il 20% del Pil. Oggi, vent’anni dopo gli accordi di Oslo, rappresenta meno del 2% .
Confisca delle terre e delle risorse d’acqua, difficoltà di movimento all’interno dei Territori e impossibilità di un contatto con l’estero, se non attraverso Israele: sono questi i fattori che hanno distrutto ogni possibilità di sviluppo economico autonomo. Oggi, la Palestina importa 80% del suo fabbisogno da Israele.
Mentre il rapporto della Conferenza Onu sul Commercio e lo sviluppo (Unctad) dello scorso agosto mostra una tendenza crescente del tasso di disoccupazione palestinese (30%) e un calo costante del Pil dal 1999 ad oggi, la ricerca di Issa Smirat rivela ritorni annuali superiori a un milione di dollari per 10% degli investitori palestinesi operanti in Israele. La maggior parte è di Hebron, Ramallah e Nablus e ha alle spalle vent’anni di esperienza nel settore.
Lo studio mostra un rapporto negativo tra livello di educazione e scelta di investire in Israele: solo il 7% degli investitori ha un titolo di laurea specialistica, ma l’equivalente del 50% degli investitori è privo di educazione superiore.
Il capitale finisce soprattutto nell’industria e nell’edilizia, spesso e volentieri anche nella costruzione delle colonie. Importare materie prime in Israele è più semplice ed economico, e anche l’elettricità e la manodopera costano molto meno. È questa una delle determinanti più significative: l’investitore palestinese può contare su lavoratori a basso costo che porta con sé dai Territori. Tra gli altri fattori di attrazione del mercato israeliano si contano la maggiore aspettativa di guadagno e una grande sicurezza finanziaria. La scarsa fiducia nell’economia dei Territori e la bassa competitività dei prodotti palestinesi, tassati da Israele per l’esportazione, spingono a investire fuori dallo Stato di Palestina.
Alla domanda se sarebbe disposto a smettere di investire in Israele, un terzo risponde negativamente. Un altro terzo sarebbe disposto a ritirare i propri investimenti se l’Autorità palestinese offrisse facilitazioni finanziarie e migliori infrastrutture.
«Se guardiamo a Israele come una costante – dichiara Issa Smirat – non c’è nulla che possa migliorare le prestazioni economiche della Palestina sotto occupazione. Io però credo che Israele sia una variabile e non una costante, e che si possano quindi limitare gli effetti dell’annessione economica da parte di Israele». Tra le raccomandazioni all’Anp, la costruzione di un aereoporto in Cisgiordania e di un porto a Gaza, così come un maggior impegno per migliorare la fiducia nell’economia e nell’ambiente finanziario, i rapporti commerciali con l’estero e per ridurre i costi di produzione.
Il dilemma dello sviluppo economico sotto occupazione non è solo questione di limitazione degli svantaggi e creazione di condizioni favorevoli. Il piano lanciato ad agosto del 2009 dal primo ministro Salam Fayyad definisce il settore privato palestinese come «motore dello sviluppo» e si impegna a facilitarne la crescita. La ricerca di Smirat mostra però come il puro interesse economico non possa far altro che dirottare gli investimenti privati verso mercati più interessanti. E un mercato sotto occupazione da 60 anni può difficilmente competere.
Ma c’è dell’altro: gli alti ritorni degli investitori palestinesi aprono una questione che va ben oltre l’economia. Questi gruppi di interesse hanno il potere di esercitare una forte pressione sulla classe politica. Una pressione che potrebbe spingere in direzione opposta all’obiettivo reale: porre fine all’occupazione militare per poter ristrutturare radicalmente gli equilibri economici e sociali.

da “il manifesto” del 29 settembre 2011

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