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Elezioni in Russia. Oggi si vota, per modo di dire

 

 

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Partito Quasi-Unico in crisi ma Putin va
Astrit Dakli

Le previsioni danno per i comunisti dell’eterno Zyuganov un salto dal 10 al 20%
Passata anche la “giornata del silenzio”, si vota oggi in Russia. Tecnicamente si vota per eleggere i 450 deputati della Duma di Stato, il parlamento federale; politicamente, per consentire a Vladimir Putin di ritornare al Cremlino, il 4 marzo prossimo, con le spalle coperte e una legislatura “tranquilla”. L’obiettivo tecnico dovrebbe essere raggiunto senza problemi, quello politico invece di problemi ne incontrerà parecchi.
Qualche numero, per cominciare. Gli elettori sono tanti, circa 110 milioni sparsi su un territorio così enorme da occupare 9 fusi orari, per cui i seggi a Kaliningrad, sul Baltico, si aprono quando a Anadyr, sul Pacifico, stanno chiudendo; tanti, tantissimi anche i problemi di rappresentatività, con una popolazione così sparsa e divisa tra innumerevoli gruppi etnico-linguistici, autonomie territoriali più o meno forti, immense differenze sociali ed economiche. Il mosaico risultante è così intricato che rappresentarlo con 450 nomi e cognomi senza creare risentimenti e sensi di esclusione non è per nulla facile. I partiti in lizza sono invece pochi, solo sette, di cui tre hanno ben poche speranze di superare la soglia del 7% necessaria per eleggere dei deputati, o anche solo quel 5% che garantisce un deputato “di bandiera”. Sono tanti i poliziotti mobilitati per garantire l’ordine ai seggi – 50mila; pochi gli osservatori internazionali ammessi a monitorare il voto, 650 in tutto.
Molti di più sono ovviamente gli osservatori russi, decine di migliaia in rappresentanza di tutti i partiti, di mass media e di istituti demoscopici specializzati. L’attenzione però si è concentrata solo su uno di questi istituti demoscopici, il Golos («Voto»), perché è stato accusato di interferire, denigrandolo e delegittimandolo, con il processo elettorale. Il Golos è finanziato dal governo degli Stati uniti e in effetti non fa che presentare caterve di esempi di violazioni, manipolazioni e interventi d’ogni tipo da parte del potere per orientare il risultato elettorale, con l’evidente intento di dimostrare che il potere in Russia non è democratico e che i veri democratici sono perseguitati, messi al bando e comunque tenuti artificialmente lontani da ogni possibilità di influire sulla politica russa. Il che è sostanzialmente esatto, anche se poi questi “veri democratici”, casualmente tutti in ottimi rapporti con l’Occidente, sono in realtà i primi colpevoli, con le loro divisioni, il loro egoismo sociale e le loro pessime frequentazioni, del fatto di essersi ridotti nel corso degli anni a quattro gatti isolati ed estraniati dal resto del Paese. Ma questo è un altro discorso.
Come che sia, nonostante il via alle accuse contro Golos sia stato dato in prima persona da Vladimir Putin la settimana scorsa, quando ha enfaticamente affermato che «governi stranieri cercano di interferire nel nostro processo elettorale pagando appositamente delle ong», e nonostante contro l’istituto sia stato aperto un procedimento giudiziario, i suoi tremila osservatori oggi saranno comunque nei seggi e faranno il loro rapporto che sarà regolarmente pubblicato e certamente dirà che il voto è stato manipolato dal potere. Del resto Golos non scopre niente, lo sanno tutti che le cose vanno così.
Repressione e internet
E già, perché sono strane elezioni queste. Il risultato del voto è scontato, come scontato è il fatto che ci siano pesanti manipolazioni, eppure c’è una grande attesa; in verità molte cose dipendono da questo esito e molte incognite gravano sugli sviluppi politici futuri. Non tutto, infatti, è poi così scontato e non è vero quel che in Occidente si tende a pensare, cioè che in Russia la censura, il controllo e la repressione siano così capillari e pervasivi da congelare ogni pensiero libero e ogni informazione. Non fosse che per il fatto che nel Paese ci sono oltre 50 milioni di utenti di internet (più che in ogni altro Paese europeo), e che in rete le informazioni e le idee circolano (almeno finora) in modo del tutto libero anche in Russia, né più né meno che da noi. Tanto che anche i media tradizionali, con tutta l’autocensura che si impongono, devono pur riportare molte notizie sgradite al potere – vedi i fischi a Putin la scorsa domenica, o i sondaggi che danno in forte calo di consensi il partito Russia Unita.
E qui siamo al punto: la crisi del Partito Quasi-Unico, che non è nascosta ma sotto gli occhi di tutti. Anche se Russia Unita è stato concepito come un partito che deve comunque vincere le elezioni e governare, perché tiene al suo interno la stragrande maggioranza dei dirigenti politici, amministrativi, aziendali, religiosi, e ancora i dirigenti sportivi, quelli dei media (va da sé), quelli delle istituzioni educative, culturali, artistiche – tutti, insomma – è ormai evidente che i cittadini non ci si riconoscono più come in passato. Lo vedono proprio come lo ha definito (vincendo su questo anche una causa per diffamazione) il blogger più famoso e influente, Aleksej Navalny: «Il partito dei ladri e degli imbroglioni»; e lo votano, se lo votano, perché costretti. Non una costrizione fisica, minacciosa, piuttosto una disperata mancanza di alternative credibili e, più ancora, il terrore dell’instabilità – parola chiave – del ritorno cioè agli spaventosi anni Novanta, quando la Russia era in ginocchio, inesistente sul piano internazionale, distrutta economicamente, sull’orlo della totale disintegrazione, in mano ad avventurieri e briganti. Al confronto, almeno nell’opinione di nove russi su dieci, gli anni con Putin al potere sembrano un paradiso che adesso, con la crisi mondiale che bussa alle porte, è in grave pericolo.
La paura dilaga tra la popolazione: paura della crisi, paura degli immigrati asiatici e caucasici che in questi anni sono venuti a centinaia di migliaia, paura – anche – per la prospettiva incombente del disastro demografico (la Russia perde ogni anno mezzo milione di abitanti e invecchia a ritmo accelerato). Non meraviglia che i sentimenti sciovinisti e razzisti siano diffusissimi tra la parte slava della popolazione (il 60% si dice d’accordo con gli slogan dei gruppi più radicali), che più delle altre si sente minacciata e in crisi: meraviglia piuttosto che finora questi sentimenti non si siano tradotti in forza politica attiva. Si aggiunga che, lungo l’arco del ventennio passato dal crollo dell’Unione sovietica, dall’Occidente “democratico” non solo non è venuto il benché minimo aiuto ma al contrario sono venuti in gran quantità gesti aggressivi, prepotenze, minacce militari e una perenne critica alla «mancanza di democrazia»: ce n’è più che a sufficienza per spingere la gran parte della popolazione a tenersi caro ciò che ha. E ciò che ha è Putin, con quel che si porta dietro: la lobby dei servizi segreti trasformata in élite politico-sociale e un partito pigliatutto dove la corruzione e l’arbitrio del potere regnano sovrani.
Non è un caso se Vladimir Vladimirovic, quando in settembre ha rotto gli indugi e ha deciso di tornare al Cremlino al posto di Dmitrij Medvedev, ha messo al primo posto tra le motivazioni la necessità di «garantire la stabilità». Perché tutto ha un limite, anche la capacità del Paese di sopportare Russia Unita: Putin lo sa e ha capito che per salvare la stabilità, cioè il sistema, era necessario rimettersi in prima linea, al di sopra del partito, e garantire personalmente; Medvedev non era sufficiente, con lui candidato presidente le elezioni di oggi sarebbero state una catastrofe, mentre ora i danni potranno essere limitati e alla peggio lo stesso Medvedev potrà diventare un capro espiatorio – dopotutto è lui che si è assunto in questi ultimi due mesi lo scomodo ruolo di capolista del partito.
Raddoppio comunista
Le previsioni parlano di un forte aumento di consensi al Partito comunista dell’eterno Gennady Zyuganov, che potrebbe quasi raddoppiare i suoi seggi e superare il 20% dei consensi; e di una buona tenuta dei nazional-populisti dell’altrettanto eterno Vladimir Zhirinovskij, che potrebbero attestarsi oltre il 10%. Più scettiche le attese per il partito Russia Giusta, una sorta di versione “social” di Russia Unita, previsto sul limite del fatidico 7%. Tutti e tre questi partiti, peraltro, non hanno mai spinto la loro opposizione al potere al di là delle parole e di qualche gesto dimostrativo minore, tipo i deputati che non si alzano in piedi quando Putin entra alla Duma. Gli altri tre partiti in lizza, i Patrioti di Russia (destra nazionalista), la Giusta Causa (destra liberale) e Yabloko (liberale) non sono accreditati di percentuali rilevanti, tutti comunque molto al di sotto del 3%. Il che è desolante soprattutto per Yabloko, che un tempo aveva oltre il 10% e partecipava alle coalizioni di governo. Resta la forte incertezza sul risultato che verrà attribuito a Russia Unita: i sondaggi dicono 40%, ma parlano delle intenzioni di voto e quindi comprendono nel totale anche quelli che si esprimono per un partito o l’altro ma poi non vanno a votare. Per capire come verranno ripartiti i seggi bisognerà vedere quanti saranno stati i votanti reali (nel 2007 furono il 64%) e quanto otterranno gli altri partiti. Russia unita aveva 331 seggi, cioè più dei due terzi e con questo la possibilità di cambiare la Costituzione (come infatti è avvenuto); ora Putin sarebbe contento se il partito arrivasse a 250 seggi, una maggioranza semplice ma sicura. Ci saranno certamente trucchi e imbrogli per correggere i risultati, ma il senso politico del voto dovrebbe essere comunque abbastanza chiaro in ogni caso: per Putin i tempi del lavoro facile sono finiti.

da “il manifesto”

 

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