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Gaza: “Piombo fuso” tre anni dopo

«Erano passate da poco le 11. Quel giorno ero impegnato a preparare gli esami, tutto appariva tranquillo. Sorseggiavo una tazza di tè quando all’improvviso dei forti boati scossero la casa. Non riuscivo a capire, strinsi forte le mani di mia sorella che tremava come una foglia. Poi mi resi conti che cadevano bombe». Così Mohammed Suleiman, giovane blogger palestinese, ricorda i primi minuti di «Piombo fuso», l’offensiva aerea, poi anche di terra, che Israele lanciò tre anni fa contro la Striscia di Gaza, spiegandola con la volontà di fermare i lanci di razzi verso il suo territorio. Un giorno normale che si trasformò in un inferno per gli abitanti della Striscia, rimasti per tre settimane sotto attacco. I palestinesi uccisi furono oltre 1.400 (tra i quali centinaia di donne e minori), 5mila i feriti. Immense le distruzioni: migliaia di case furono distrutte o danneggiate, tante infrastrutture civili vennero ridotte in macerie. I morti israeliani furono una quindicina: in buona parte soldati uccisi in combattimento. Israele tenne fuori la stampa estera da Gaza per quasi tutta la durata dell’offensiva. A raccontare agli italiani quei 22 lunghi giorni di morte e devastazione sulle pagine del manifesto fu Vittorio Arrigoni, l’attivista e giornalista italiano giunto a Gaza quattro mesi prima a bordo delle imbarcazioni del Gaza Freedom Movement. 

Oggi i palestinesi terranno cerimonie commemorative nei Territori occupati. Iniziative analoghe, in ricordo anche di Vittorio Arrigoni (ucciso a Gaza lo scorso aprile), sono previste in Italia e in altri paesi europei. E proprio nel terzo anniversario di «Piombo fuso», si registra un nuovo tentativo di delegittimare i palestinesi. L’influente miliardario statunitense Sheldon Adelson domenica scorsa si è unito al principale candidato repubblicano alle presidenziali, Newt Gingrich, nel definire il popolo palestinese «inventato» a tavolino. Adelson si è detto sicuro che gli stessi palestinesi sanno di essere stati «inventati». Parole gravi, pronunciate mentre il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman, nel corso dell’annuale riunione con gli ambasciatori dello Stato ebraico nel mondo, sosteneva «l’impossibilità» nel prossimo decennio di una soluzione di pace con i palestinesi. Per Lieberman quindi si deve parlare di «gestione» e non di soluzione del conflitto. A suo dire, i palestinesi non avrebbero il fine di giungere a un accordo con Israele ma intenderebbero soltanto internazionalizzare il conflitto. Alle tesi di Lieberman e Adelson ha risposto indirettamente il patriarca latino di Palestina e Giordania, Fuad Twal, durante l’omelia della messa di Natale a Betlemme. Riferendosi al Muro che Israele ha eretto in Cisgiordania, Twal ha invocato «il crollo dei muri materiali e psicologici» per portare la pace nella regione e dare giustizia ai palestinesi con la costituzione del loro Stato.
Più che passare il loro tempo a delegittimare i palestinesi, Adelson e Lieberman farebbero meglio a concentrare l’attenzione sui problemi della società israeliana. A cominciare dai diritti delle donne negati dalla comunità religiosa ultraortodossa, argomento al centro del dibattito interno in questi giorni. E’ di ieri un nuovo preoccupante episodio. Una bambina di 8 anni, Naama Margolis, di Beit Shemesh (Gerusalemme), ha dichiarato di aver «paura» a percorrere i 300 metri che separano casa dalla scuola. Viene sistematicamente attaccata da zeloti ortodossi, ha spiegato, perché non si veste «in maniera sufficientemente modesta». I giornalisti che vanno a Beit Shemesh vengono aggrediti.
Ieri due troupes televisive sono state assalite da gruppi di ultraortodossi.

* Il Manifesto 27 dicembre 2011 

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