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Non solo rapimenti. La guerra indiana contro i naxaliti

Questo articolo ci aiuta invece a capire “il contesto” in cui le cose accadono.

 

Raid «brutale». L’esercito indiano entra nella mitica zona di Abujimard
Animali a dodici teste e asili infantili Attacco al cuore di tenebra naxalita
Marina Forti

«Breccia nella fortezza maoista», ha titolato The Telegraph di Calcutta, il maggiore quotidiano in inglese dell’India orientale. «Operazione Abujimard: la polizia federale nella terra dei maoisti e dei miti», ha fatto eco The Indian Express. Perfino la telegrafica Pti, l’agenzia di stampa indiana, tradisce lo scalpore: «Le forze speciali finalmente entrano nel bastione dei naxaliti», titolava il dispaccio che per primo ha dato la notizia, il 1 aprile: «Un’operazione senza precedenti ha permesso alle forze paramilitari di aprire una breccia nella foresta di Abujimard, in Chhattisgarh, roccaforte maoista da cui lo stato era assente da tempo».
L’operazione militare avvenuta tra il 10 e il 17 marzo dice qualcosa sul vero e proprio conflitto in corso tra le montagne nel cuore dell’India – un conflitto politico in cui si sono trovati loro malgrado coinvolti Paolo Bosusco e Claudio Colangelo, rapiti nelle montagne del vicino Orissa proprio in quei giorni. Conflitto che ha radice in antiche ingiustizie verso la popolazione «tribale» di queste zone (vengono chiamati così i nativi indiani, per lo più contadini).
Abujimard è una zona di foresta di 6.000 kmq nel Chhattisgarh, India centrale, in un punto strategico dove convergono i confini di quattro stati. È là che alla fine degli anni ’90 si erano insediati i guerriglieri maoisti provenienti dall’Andhra Pradesh, appena a sud: grazie alla natura di quel terreno di montagne alte più di 1000 metri), foreste, poche strade, villaggi sparsi su grandi distanze. Abujimard così si è fatta la fama di una delle «zone liberate» dei ribelli. Spesso i media la descrivono come un cuore di tenebra, dove «i naxaliti hanno stabilito il loro impero e tenevano le loro scuole e asili infantili per lavorare contro la democrazia» (così il quotidiano in hindi Nai Dunia, del Chhattisgarh). Perfino il nome contribuisce al mito: abujh, «ignoto». E l’operazione militare del mese scorso è a sua volta descritta in termini epici, anche perché in effetti la regione non è mappata in modo preciso: i paramilitari vi si sono addentrati «armati di mappe dell’epoca britannica», riferisce la Pti.
«Qualcuno dice che nell’Abujimard si trovano animali a 12 teste. E poi ci sono i maoisti», ha dichiarato Pankaj Kumar Singh, capo delle operazioni della Central Reserve Police Force – Crpf, la polizia federale addestrata per operazioni speciali (a The Indian Express, 8 aprile). Chiamata con i nomi in codice «Vijay» e «Haka», l’operazione ha coinvolto circa 3.000 uomini della Crpf, e del suo corpo di élite, CoBra, che sono entrati nella zona da tre direzioni per ricongiungersi in un punto centrale. Erano armati di lanciarazzi, fucili automatici C-90 e telefoni satellitari; elicotteri da guerra erano pronti all’intervento. Gli alti ufficiali riferiscono di aver avuto una dozzina di scambi a fuoco con i maoisti, ma sempre a distanza; dicono di aver «smantellato una fabbrica artigianale di armi» e rastrellato tre villaggi «dove i maoisti hanno una presenza significativa» (Toke, Hikonar e Jatwar). Infine dicono di aver arrestato 13 persone. In tutto hanno camminato circa 150 km da un lato, 40 o 50 dagli altri. In fondo hanno rastrellato appena il 15% della regione, ammette l’alto ufficiale citato dal Indian Express, che però ripete: «Abbiamo spezzato il mito del Mard».
La «narrativa» ufficiale sull’assalto al bastione maoista è contraddetta da due diverse fonti. Una è l’avversario: un lungo comunicato del Partito maoista, riportato dai media, accusa le forze di sicurezza di aver bruciato case e saccheggiato villaggi, e di aver ucciso almeno un abitante nel corso dei raid. Inoltre accusa il governo di aver lanciato «una brutale repressione dei nativi nella foresta di Abujimard allo scopo di togliere loro quella terra ricca di giacimenti e consegnarla alle compagnie minerarie» (così riferisce il Dna, Daily News and Analysis, 6 aprile).
Il quotidiano The Hindu è l’unico per ora che abbia mandato un inviato in quei villaggi e anche il suo racconto contraddice l’immagine data dalle fonti ufficiali. Le testimonianze raccolte tra gli abitanti, incluso un maestro di scuola, confermano che si è trattato di un raid brutale, con case distrutte e saccheggiate e almeno due persone inermi uccise (alcuni episodi sono stati poi confermati dalle forze di sicurezza, che però negano uccisioni e «abusi»). Di questo si allarma la People’s Union for Civil Liberties (Pucl), la più antica rete di attivisti per i diritti civili in India: si chiede se l’offensiva nella foresta segni il passaggio a «una nuova fase della guerra tra lo stato e i maoisti», fuori dallo scrutinio pubblico, dice un comunicato del 29 marzo, e denuncia che le persone arrestate non sono ancora state portate davanti a un giudice, né precisate eventuali imputazioni. La cronaca del Hindu solleva dubbi anche dal punto di vista «militare»: diversi ufficiali delle forze di sicurezza ammettono che l’operazione non ha cambiato molto la situazione sul terreno, e che il materiale sequestrato – un vecchio fucile, cinque moschetti artigianali, una stampante portatile e un po’ di materiale di propaganda – non fanno pensare a un «bastione della guerriglia».
Piuttosto, quella che emerge è un’ampia regione abbandonata a se stessa: nessuna copertura telefonica, nessun pronto soccorso o dispensario medico, un solo ufficio postale in tutta la regione, assente l’amministrazione pubblica. Rare scuole governative hanno lasciato in effetti posto a qualche scuola organizzata dai maoisti. Nessun posto di distribuzione del riso sovvenzionato dallo stato. Nessun posto di polizia oltre l’ultimo borgo importante vicino al capoluogo di distretto. Conclude l’inviato del Hindu, buon conoscitore della zona: «L’effetto combinato dell’intervento dello stato e dei maoisti nei villaggi nativi ha reso difficile distinguere tra guerriglieri e abitanti, “campi ribelli” e villaggi, ashram ribelli e scuole dello stato, o tra “razioni maoiste” e riso della distribuzione pubblica».
Se la stessa esistenza di una guerriglia maoista appare anacronistica in un paese moderno come l’India – una «potenza emergente» saldamente inserita nell’economia globale – converrà leggere un altro dispaccio d’agenzia, questa volta dalla capitale New Delhi: «Di fronte alla recrudescenza di attacchi naxaliti, il governo centrale ha deciso di chiedere ai governatori di usare i loro poteri speciali sulle zone di popolazione nativa e valutare se revocare le concessioni minerarie date a imprese pubbliche e private». Il Ministro per gli Affari indigeni, Kishore Chandra Deo, spiega (al Economic Times, 11 aprile) che le attività minerarie hanno fatto innumerevoli sfollati tra le popolazioni native, private della terra e neppure risistemate adeguatamente. Parla di leggi violate (quelle sui diritti di autogoverno dei nativi) e il primo caso riguarda una certa concessione in un distretto dell’Andhra Pradesh adiacente a quello di Koraput, in Orissa, «dove notiamo un picco di attività naxalita»: è dove i maoisti hanno rapito un deputato dello stato di Orissa, vicenda che si è intrecciata con le trattative per la liberazione di Paolo Bosusco. E così il governo centrale implicitamente riconosce che l’oscura guerriglia sulle montagne dell’India centrale è un aspetto dei conflitti suscitati dalla corsa a estrarre le risorse minerarie, su cui l’India ha puntato parte della sua aspettativa di crescere nell’economia mondiale – e che ha inasprito vecchie ingiustizie, accelerando l’espulsione dalla terra delle popolazioni più emarginate e impoverite.
 
da “il manifesto”

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