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Nucleare iraniano, il dialogo e le bombe

I cinque (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia) più uno (Germania) tornano a dialogare con l’Iran rappresentato dal Segretario del Consiglio di Sicurezza Jalili. Davutoğlu fornisce ospitalità, Catherine Ashton, responsabile della sicurezza di quell’istituzione dal programma politico vago o assente che è l’Unione Europea, rappresenta il gruppo occidentale. Il tavolo negoziale ha comunque un valore simbolico perché interrompe un digiuno di incontri di quindici mesi cui erano seguiti gli ultimi inquietanti attentati contro scienziati iraniani impegnati nel progetto nucleare. Altamente sospettate le Intelligence israeliana, statunitense e britannica che ultimamente si sarebbero servite di gruppi Mojahedin-e Khalq. Poi dall’autunno sono iniziate le martellanti dichiarazioni dell’establishment di Tel Aviv sulla necessità di colpire il Paese “terrorista”. A esse s’univano i cori del conservatorismo statunitense e britannico desiderosi di “democraticizzare” il Medio Oriente a suon di bombe. L’iniziativa diplomatica in corso potrebbe anche risultare l’ennesima operazione di make up elettorale visto che tre delle quattro potenze occidentali (Usa, Francia, Germania) saranno a breve e medio termine coinvolte nella campagna elettorale e si sa quanto la politica estera sia un formidabile terreno di propaganda per la linea interna d’ogni nazione.

Gli ottimisti sperano invece in un prosieguo del dialogo, prossima tappa proposta dagli iraniani maestri di simbologie: Baghdad a maggio. La frattura fra le parti, sancita unilateralmente dalle sanzioni occidentali, è vissuta da tutto il popolo iraniano (gruppo dell’attuale presidente, opposizione presente o futura, Pasdaran, clero e quant’altri) come un attacco al princìpio dell’autodeterminazione che ogni popolo reclama per sé, a est come a ovest. Risulta perciò un formidabile cemento per l’Iran, più nocivo alle smanìe di controllo occidentali di taluni boomerang economici che i mancati import-export determinano sulle economie di Londra, Parigi, Roma e Berlino. Washington ne è appena sfiorata e fa pesare le ricadute dei mancati scambi sulle casse dei condiscendenti alleati. Per la cronaca dopo gli avvenimenti dei mesi scorsi, soprattutto l’assassinio di Mostafa Ahmadi Roshan e dell’incrudimento dell’embargo, è vertiginosamente cresciuto il numero di neo laureati in ingegneria nucleare che richiedono di essere selezionati dall’agenzia iraniana per supportare il progetto di ricerca atomica. Il diritto al nucleare civile sostenuto da Teheran, lo stesso che americani e russi (quest’ultimi in verità con parecchi pericoli) e francesi hanno scelto da tempo, continua a essere messo in discussione per i sospetti di un possibile armamento militare che nessuna ispezione tecnica dell’Aiea ha finora dimostrato.

Sul tavolo riaperto poggiano richieste parecchio lontane, gli iraniani sostengono che il programma civile necessita d’un arricchimento d’uranio del 20%, europei e americani concedono molto meno. Affermano che in alcuni laboratori (Fordo presso Qom, il sito-bunker che sorge nel ventre di una montagna) le potenzialità potranno raggiungere il 90%, aprendo la strada dunque anche alla produzione di armi nucleari. Ciò nonostante alcuni osservatori valutano favorevolmente la riapertura del dialogo, seppure seguiranno tira e molla sulle percentuali d’arricchimento e sul patteggiamento di eventuali nuovi controlli dell’Aiea che Teheran accetterà solo in cambio di un ammorbidimento delle sanzioni. Ahmadinejad nel cercare di sfruttare le circostanze (anche in Iran l’anno venturo ci saranno elezioni) ha ricordato che il Paese non consentirà alla comunità internazionale di violare il diritto allo sviluppo d’un nucleare civile. Infatti Jalili sta parlando fitto col rappresentante cinese Ma Zhaoxu per continuare a garantirsi almeno un sostegno fra i potenti 5+1. Eppure al di là dei passi diplomatici e dell’ormai scarso potere di Ahmadinejad, il sentire iraniano è uniforme. Lo spiegava in una recente intervista sull’argomento concessa ad Al Jazeera il professor Morteza Dehghani, assistente presso l’Istituto di Tecnologie Creative dell’Università della California che ben conosce i connazionali “In Iran lo sviluppo dell’energia nucleare è un valore sacro, come la terra di Gerusalemme è per molti israeliani e come per tanti palestinesi è il diritto al ritorno”.

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