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Musleh e il fosforo d’Israele

Cinque gennaio 2009: Israele sta bombardando la Striscia da dieci giorni, Mushah è tappato in casa con la famiglia. Ricorda “Sapevamo che erano già morte centinaia di persone, stavamo rinchiusi, sperando e pregando di non essere colpiti. Vivevamo una condizione d’impotenza, un sentimento di tristezza e rabbia”. “La tristezza dei miei concittadini sta tuttora nell’impossibilità di una vita normale: poter coltivare la terra, pescare, crescere i figli con le nostre risorse. Il sopruso che subiamo da quell’occupazione subdola basata su isolamento ed embargo, sull’impossibilità di muoverci, di usare il nostro mare, di non avere più l’aeroporto, di vedere bloccati alle frontiere per ordine di Israele gli aiuti internazionali. Sentirsi in ogni momento un costante obiettivo è insopportabile”. E’ la realtà che nessun rapporto Goldstone ha lenito.

L’ultima cosa che Musleh ha visto chiaramente è stato il bagliore che seguiva la terribile esplosione d’un missile caduto a pochi metri da casa. Lui e la sorella Nahla erano vicino a una porta che saltò in aria, furono investiti e feriti da schegge di tutto quello che si disintegrava. Quindi dai micidiali fumi che non cessavano. Li respirarono per ore perché l’abitazione non aveva più protezioni: vetri in frantumi, porte e finestre divelte. La famiglia di Musleh era prigioniera in quella casa come centinaia di migliaia di gazesi scampati alle bombe, non si poteva far altro che stare lì perché gli F16 sfrecciavano e sganciavano. Poi di notte, quando gli aerei non volavano, fuggirono tutti a casa di uno zio. Gli occhi bruciavano e non si potevano lavare, non c’era acqua perché l’aviazione aveva distrutto le grandi condutture e bombardato molti pozzi. Nelle pupille di Musleh la nebbia cresceva, il calore aumentava, le figure dei parenti diventavano sfocate e opache “Capivo che era accaduto qualcosa di grave, ero stordito ma riuscivo appena ad appisolarmi. Gli occhi erano un fuoco però temevo potesse succedere di peggio. Temevo di morire, come accadde il giorno dopo a chi stava nella scuola dell’Unrwa. Quindi, credo fossero trascorsi otto o nove giorni dall’esplosione, scomparve ogni cosa: laylah”.

“Chi ha spento la candela? Nessuno Musleh, mi ripetevano, è mattino e c’è il sole anche se i caccia volano ancora”. Musleh non vedeva, non vedeva più i parenti, il tavolo e ogni cosa attorno. Tutto scomparso. Sentiva. Ancora stridore, gemiti, preghiere. E deflagrazioni. Il 18 gennaio cessarono gli spari. Lui ci mise ancora qualche giorno prima di uscire di casa, bloccato dalla mestizia e dalla cecità. Quando potè essere visitato dai medici della Mezzaluna Rossa le condizioni apparvero in tutta la gravità, ma non dissimili da centinaia di bambini e adulti che avevano respirato i fumi venefici. Era uno dei cinquemilatrecento feriti di quella guerra combattuta a senso unico. Quando già nelle settimane seguenti la fine dell’attacco osservatori Onu poterono entrare nella Striscia, su ordigni inesplosi, reperti di terra e macerie c’era la prova di quello che Tel Aviv negava: l’uso del fosforo bianco nelle bombe dei propri soldati. Intanto Musleh restava lì accecato. Come ogni abitante di Gaza era impossibilitato a muoversi, anche per i feriti gravi c’era bisogno d’un visto israeliano che non arrivava. Oltre cento persone morirono per il ritardo delle cure, le vittime di Gaza nelle settimane successive al 18 gennaio 2009 salirono fino a 1.450.

Musleh ha potuto avviare il suo protocollo di cure nel giugno 2011. Intanto si era sposato con Amani e avevano avuto la prima figlia Nahla, che oggi ha due anni. Ricorda ancora “Quando partii per Creta la seconda bambina doveva ancora nascere. Ora ha otto mesi. Con mia moglie abbiamo deciso di chiamarla Nour come buon auspicio per l’operazione che avrei dovuto affrontare. I sanitari di Creta mi dissero che il mio caso era molto complesso e mi consigliarono l’Italia”. “Sono stati i medici ellenici a indicarci la struttura di Roma” afferma Mohammad Abu Omar membro dell’Associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese che traduce in simultanea l’arabo di Musleh e lo sostiene nel soggiorno dal settembre scorso. Gli altri organismi sono la Mezzaluna Rossa Italia coordinata da Yousef Salman e Patrizia Cecconi e per l’accoglienza la Casa del Sole, creata dai dottori Sergio Longo e Bianca Maria Palleschi presso l’Ospedale San Camillo. “E’ grazie a questa diffusa rete di solidarietà che Musleh ha potuto iniziare le cure – prosegue Abu Omar – l’Ospedale Forlanini-San Camillo fornisce un’eccellente unità che ha seguito il suo caso con competenza e dedizione. In autunno è stato sottoposto alla prima operazione dal dottor Colliardo, per ogni occhio ne serviranno quattro, l’intervento si chiama odontocheratoprotesi. La degenza sarà lunga, abbiamo dovuto rinnovare il permesso di soggiorno per altri sei mesi e sicuramente non basterà”.

Pur accettando con pazienza e fede il crudele destino Musleh non cessa di sperare. Per la sua gente che non tornino massacri come quelli che ha conosciuto “Il pericolo è reale perché noi resistiamo, è questo che non ci perdonano. Israele non comprende che finché occuperà la nostra terra la pace resterà lontana”. Poi sorride e parla dei progetti “Tornare agli sudi islamici e vedere moglie e figlie. Se le operazioni andranno per il meglio i dottori mi faranno questo grande regalo, potrò scoprire i volti delle mie bambine e rivedere il mare davanti casa che da quattro anni sto solo sognando”.

 

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Cos’è l’Odontocheratoprotesi per la quale è specializzata l’Unità Operativa Complessa di Oculistica Eccellenza dell’Ospedale San Camillo-Forlanini di Roma (cfr. http://scf.gosp.it)

 

La cecità corneale dovuta a gravi e rare patologie oculari, quali malattie autoimmuni (Sindrome di Lyell, Sindrome di Steven-Johnson, Pemfigoide oculare cicatriziale, Sindrome di Sjogren, GVH disease) ed esiti di cheratiti infettive o traumatismi chimico-fisici, non è trattabile con il trapianto corneale, né con le moderne tecniche di ricostruzione della superficie oculare.

La superficie oculare è l’unità funzionale composta da cornea, congiuntiva e film lacrimale, la cui integrità è indispensabile ai fini di una normale visione.

Tali malattie provocano gravi alterazioni della superficie oculare con comparsa di opacità e vascolarizzazione della cornea, così serie che il trapianto di cornea, anche se preceduto dall’impiego di cellule staminali o membrana amniotica fallisce o è ineseguibile perché destinato all’insuccesso.

In questi casi l’unica terapia chirurgica possibile è rappresentata dall’intervento di osteoodontocheratoprotesi (OOKP), che consente il recupero visivo in pazienti che hanno subito una riduzione della funzione visiva talmente seria da determinare cecità quasi totale, con residua unica percezione della luce.

La procedura chirurgica si articola in 3 stadi (tempo necessario per il completamento dell’intervento di OOKP 4-6 mesi).

Nel 1° stadio è necessario preparare il segmento anteriore dell’occhio, eseguendo l’asportazione di iride, cristallino e di parte del vitreo e ricoprendo la cornea con congiuntiva bulbare.

Nel 2° stadio si esegue il ricoprimento del bulbo oculare con un lembo di mucosa buccale prelevato dalla guancia (stadio 2A); successivamente, si preleva nella sua interezza un dente canino o incisivo comprensivo dell’osso

alveolare circostante la radice: dal blocco osteodentario si ricava una lamina di forma quadrangolare in cui si esegue un foro nel quale viene fissato un cilindro ottico con colla da dentista; la lamina osteo-odonto-acrilica viene quindi sepolta in una tasca sottocutanea preparata in corrispondenza del solco orbito-palpebrale dell’occhio controlaterale (stadio 2B). Le 2 fasi vengono eseguite contemporaneamente o separatamente in base all’obiettività clinica del bulbo oculare, alla malattia di base responsabile delle cecità e alle condizioni di salute generale del paziente.

Il 3° e ultimo stadio viene eseguito dopo 3 mesi dalla preparazione della lamina osteo-odonto-acrilica. Dopo aver scrollato parzialmente la mucosa buccale si impianta la lamina osteo-odonto-acrilica sulla superficie anteriore dell’occhio, e la si ricopre con la mucosa buccale; dopo qualche mese si può applicare sull’occhio operato una protesi cosmetica.

La migliore acutezza visiva postoperatoria viene recuperata dopo almeno un mese da quest’ultimo intervento ed è compresa in più del 75% dei casi tra 3/10 e 10/10 (intervallo della visione normale o quasi normale secondo la classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – OMS).


 

 

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