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Grecia. Il limite e il boomerang

 

“Cosa stiamo facendo?”. Questa domanda percorre di solito l’attività umana consapevole. Ma non sembra percorrere gli oscuri burocrati della troika. Che applicano ricette apprese sui libri, elaborano grafici, compulsano formule. E pois coprono all’improvviso che qualche milione di esseri umani, ammazzati da quelle ricette e da quelle formule, vorrebbero starngolarli con le proprie mani. Se solo potessero.

Prima di arrivare a questo punto di non ritorno, ecco che i più attenti osservatori del reale si metono al lavoro e cercano di stemperare gli aculei peggiori che ogni dogmatismo economico si porta dietro. Forse è troppo tardi; forse la “tempesta perfetta” che si va preparando ha già accumulato il suo potenziale distruttivo. Da Hollande a questo pezzo “autocritico” de Il Sole 24 Ore arriva comunque un segnale di sofferenza all’interno stesso del “cervello” della governance europea. Che indica il problema: “tutto quello che abbiamo fatto finora non è servito a nulla, dal punto di vista sistemico, e rischia di travolgerci su quello politico”.

Che poi, ad Atene, siano vicini a comprare l’adesione di “Sinistra democratica” per la formazione di un ircocervo di governo con coservatori, “socialisti” e appunto i “democratici”, non significa molto: solo che la governance tirerà avanti ancora un po’ sulla stessa strada suicida. Incapace di imparare dall’esperienza? No, più probabilmente guidata da interessi che prescindono assolutamente dalla “coesione sociale” interna dei paesi europei. Possibile che Corrado Passera non lo sappia?

 

La Ue tecnocratica soffoca la Grecia

Adriana Cerretelli

Finora l’Europa ha affrontato la tragedia greca con leggerezza, indifferenza, supponenza, distacco, secondo i momenti. Sempre sotto il pungolo dei mercati. Non di propria iniziativa. Mai con politica e visione chiare. Meno che mai con autentico spirito di famiglia.

E vorrebbe continuare così in attesa delle nuove elezioni di giugno, restando sul suo piedestallo dal quale impartisce lezioni e punizioni, blocca gli aiuti, impone rigore da cavallo a un popolo che, prostrato da cinque anni di recessione, continua ad avvertirlo come un sopruso e non come l’amara medicina per guarire i suoi troppi malanni.
Ma perché tra un mese i greci dovrebbero correggere il voto che ha devastato la loro democrazia azzerando i partiti tradizionali (responsabili del disastro) per premiare estremisti e populismi di ogni colore, anti-Governo, anti-Europa, anti-austerità? Il 6 maggio ad Atene ha trionfato l’esasperazione insieme alla disperazione, il senso di solitudine, di spaesamento di fronte ai dogmi intoccabili del cinismo europeo. «Ci hanno usato come cavie da laboratorio» dice, amaro, George Papandreou.

Sono mesi che la Grecia è fallita e vive sull’orlo del baratro. Ormai ha ben poco da perdere se non l’appartenenza a un’Europa che a fatica riesce a nascondere il fastidio quando non l’aperta intolleranza verso un partner piccolo (2% del Pil) ma ribelle, lassista, indisciplinato.
Cambiare il voto, tornare sulla retta via per evitare il peggio? Sarebbe un’ottima ragione per farlo, a patto di poter credere di evitarlo davvero il peggio. Di ritrovare la speranza in un’Europa severa sì ma anche ragionevole. «Quante volte vogliamo far votare i greci, una, due, tre, quattro volte, prima di vederli venire in ginocchio a pregarci di aiutarli» ha gridato l’altro ieri nell’aula dell’Europarlamento Daniel Cohen-Bendit, il leader dei Verdi. «Va riaperto il memorandum perché il popolo greco sia in grado di applicare le politiche di austerità. Se li affamiamo, ne faremo dei fascisti e il fascismo si ritorcerà contro di noi».

Di sintomi di insofferenza verso la normale dinamica democratica e verso l’Europa già da tempo se ne avvertono troppi, diffusi quasi ovunque. Se si vuole, c’è il tempo per scongiurarne la deriva con un atto di generosità e di pazienza, con un messaggio di fiducia che per una volta accantoni dogmi e “tecnicalities” riesumando un’Europa dal volto umano, politico, solidale con i sacrifici altrui: la stessa che 60 anni fa seppe riabbracciare la Germania disperata e sconfitta (lo ha ricordato l’altro ieri il presidente dell’Europarlamento, il tedesco Martin Schultz) e poi accettarne la riunificazione e i pesanti contraccolpi inferti agli equilibri europei, quelli che hanno fragilizzato la governance di un’Unione incapace di trarne le conseguenze.

«Gli eurocrati della troika sono i peggiori: arroganti, freddi, inflessibili, dogmatici. Molto meglio trattare con gli uomini dell’Fmi» denunciava tempo fa un negoziatore irlandese. Certo da una Commissione Ue acritica, declassatasi a puro esecutore delle direttive dell’Eurogruppo, difficile aspettarsi altro. «Dipende dai greci decidere se uscire dalla crisi votando una coalizione in grado di applicare il memorandum. Quando non avranno più soldi per pagare pensioni e stipendi, visto che non sono in grado di finanziarsi sui mercati, capiranno da soli» dice un addetto al dossier nel puro linguaggio dell’ortodossia, del brutale ricatto europeo.

Poi, di fronte alle obiezioni sulla cura eccessiva, socialmente insostenibile, ammette: l’idea di Papandreou di fare un referendum sul memorandum di impegni, continua, era un rischio enorme ma avrebbe costretto i greci a scegliere consapevolmente se stare o no nell’euro e a quali condizioni. Nessuno invece a spiegato loro il costo del rifiuto. È andata come è andata. Oggi un’uscita della Grecia dall’euro non sarebbe indolore per nessuno. Potrebbe anche scatenare un effetto domino incontrollato. Per evitare che la tragedia greca diventi la tragedia europea, basterebbe un gesto di coraggio, di leadership: rigore sì ma ammorbidito nei tempi per renderlo più accettabile insieme a stimoli europei veri e rapidi alla crescita economica Ue. Riuscirà l’Europa a recuperare la lungimiranza delle origini?

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