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Westfalia, chiave d’Europa

La sconfitta della Merkel contro un’avversaria socildemocratica soprannominata con molta sicumera “la regina dei debiti” – per una certa resistenza all’ossessione dei tagli al bilancio – assume obiettivamente il significato di una bocciatura della politica del “rigore” proprio lì dove sembrava vincente. La Germania, infatti, ha tratto fin qui il massimo vantaggio dal debito altrui, riuscendo a rifinanziare gratis il proprio grazie ai differenziali; ovvero allo spread.

Le elezioni politiche in Germania ci saranno soltanto tra un anno. Ma non c’è all’orizzonte alcuna prospettiva positiva, tale da permettere alla Merkel e soprattutto alla Cdu di immaginare un rovesciamento della tendenza. Questo apre un serio problema politico per gli interessi del capitale finanziario che ha fin qui dominato la governance europea.

Se non c’è alcuna possibilità di cambiare gli assetti interni alla Bce o alla Ue (e tantomeno nel Fmi, la terza gamba della “troika”), e quindi nel blocco decisionale principale, tuttavia viene a mancare un supporto certo a livello dei governi nazionali. Che certamente sono stati indeboliti dal processo di concentrazione dei poteri a un livello più alto, ma mantengono ancora una funzione-chiave: non tanto quello di far accettare le politiche elaborate nel “centro” alle rispettive popolazioni, quanto quello di dare una parvenza di “legittimità democratica” a un processo decisionale che resta totalmente oscuro.

Finché reggeva il patto di ferro tra la Francia sarkozista e la Germania, infatti, si poteva tranquillamente attribuire a questi due soggetti la poco simpatica responsabilità dell’austerità europea. Ma ora la centrale di comando rischia di rimanere “scoperta”. Banalizzando un po’, diventa difficile dire – per tutti i governi – “lo vuole l’Europa”, se non c’è più nessun governo a dire “rigore e basta” e se l’unico che lo dice zoppica in maniera irreparabile.

Nell’immediato, infatti, ci sarà il problema di confermare o meno alcune scelte. Hollande ha promesso in campagna elettorale la modifica del fiscal compact, quel patto che comporta l’obbligo prioritario di abbattere al 60% il debito pubblico. Per l’Italia questo significa dimezzarlo, in 20 anni, con manovre da 45 miliardi di euro l’anno. Una finanziaria alla Amato ogni anno per un periodo così lungo non può che uccidere un modello sociale; che è poi il vero obiettivo.

La Merkel resisterà, indubbiamente, ma ora è molto più debole. E’ supportata da Bundesbank e Bce, poteri fortissimi ma senza alcuna legittimità democratica; che possono dunque dare in pubblico autorevoli “pareri tecnici”, ma non pretendere di sostituirsi – come hanno fatto finora dietro la cortina fumogena del duo Sarkozy-Merkel – al potere politico “scelto dai popoli”.

Il “fronte politico” del capitale finanziario deve dunque cercare nuove configurazione ed equilibri, che permettano di “dare respiro” a leadership in chiaro affanno in tutto il Continente.

Va tenuto d’occhio Monti, in questo frangente. Come un vecchio doroteo, ci ha messo un secondo a riposizionarsi sullo scacchiere europeo: la parola “crescita” sarà il tormentone dell’estate. Solo la parola, però.

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