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Venti di crisi. Ma chi comanda davvero?

Siamo sempre grati a chi lavora bene sui dati economici, senza indulgere in ricette ideologiche alla Giavazzi-Alesina.

E consigliamo dunque la lettura di questo articolo di Morya Longo, su Il Sole 24 Ore. Di particolare interesse è anche il grafico che lo accompagna, da cui emerge con notevole chiarezza – oltre alla posizione di straordinario vantaggio per la Germania – qual’è la differenza tra le tensioni di mercato registrate in novembre e quelli di oggi (e per oggi): il ruolo della Bce è di fatto cambiato, avvicinandosi molto a quello di “prestatore di ultima istanza” ricoperto dalla Federal Reserve statunitense.

Un cambiamento che non è inscritto nello statuto della Bce e dipende solo da valutazioni “tattiche” del suo attuale board, presieduto da Mario Draghi. Anche questo è a suo modo un “fattore di rischio”, perché una differente composizione del consiglio potrebbe determinare comportamenti diversi in situazioni simili, togliendo “certezza” agli operatori sul mercato.

C’è una seconda considerazione da fare. Il nuovo ruolo momentaneo della Bce sostituisce quello degli Stati nazionali. Ovvero concentra ancora di più in mani puramente “tecniche” decisioni che riguardano tutto il continente (non solo l’eurozona strettamente intesa), per di più senza che questa concentrazione sia neppure regolata. Se non altro a livello di statuto.

Detto altrimenti, il “centro di comando” che coordina i soccorsi si è fortemente ridotto di numero e rappresentatività. Di “democrazia”, in situazioni del genere, è meglio parlare sottovoce.

 

La trincea dell’euro al test della speculazione

Morya Longo

Dopo le elezioni greche, che hanno fatto emergere l’ostilità del Paese ellenico verso le politiche di austerità imposte dalla tecnocrazia europea, la sensazione che qualcosa stia per esplodere è concreta sui mercati: se Atene dovesse uscire dall’euro, come ormai tanti economisti ritengono probabile, l’effetto domino potrebbe investire anche altri Paesi. Il timore che l’euro si spacchi in mille pezzi è diffuso.

È nei report degli economisti. È nei meeting interni di banche e imprese. È nelle facce cupe degli operatori. Come la consapevolezza che se questo accadesse, l’Europa andrebbe probabilmente incontro a un crack generalizzato.
Eppure, nonostante il timore diffuso (ma non unanime), le quotazioni sui mercati finanziari non mostrano livelli di stress paragonabili a quelli dello scorso novembre. I BTp italiani decennali rendono oggi il 5,80%: molto meno del 7,20% toccato il 9 novembre scorso. Solo la Spagna ha tassi più alti. Anche l’euro, seppur in caduta, è più forte oggi dello scorso gennaio. I casi, dunque, sono due: o i mercati credono che la Grecia stia semplicemente “negoziando” condizioni migliori con l’Europa ma non voglia realmente abbandonare l’euro; oppure credono che prima o poi la Bce inventi qualche misura eccezionale per salvare, almeno temporaneamente, la baracca.

La sensazione che l’Europa stia giocando con il fuoco è diffusa. Ma, evidentemente, è anche diffusa la convinzione che – rispetto a novembre – oggi ci siano più estintori.

I passi avanti da novembre
In effetti molto è cambiato rispetto a novembre, momento più acuto della crisi europea sui mercati finanziari. Alcune novità positive oggi ci sono. La maggiore si trova, per esempio, nel mondo bancario: allora gli istituti di credito del Vecchio continente erano quasi tutti a corto di liquidità e rischiavano di fallire come birilli. Oggi, dopo che la Bce li ha foraggiati con mille miliardi di euro, questo rischio è ridotto. Il “cross currency basis swap” (un indicatore che più diventa negativo più mostra la difficoltà delle banche europee a reperire fondi in dollari) lo dimostra chiaramente: a novembre, segnala un economista, era a -155, mentre ora è “solo” a -50.
È vero che oggi le banche hanno molti più crediti deteriorati in bilancio e che soffrono per la recessione. Ma è anche vero che la crisi di liquidità, l’unica che può veramente essere fatale per una banca, è in gran parte scongiurata. Anche a livello di Stati molte cose sono state fatte. Solo la Spagna ha peggiorato le sue condizioni generali. «Ma soprattutto oggi – osserva Silvio Peruzzo, economista di Rbs – c’è la consapevolezza che raggiunti certi livelli di stress la Bce intervenga come ha fatto dopo la crisi di novembre».

I passi indietro
Purtroppo, però, a fronte di questi minimi passi in avanti, oggi i rischi sono molto più grandi. Se la Grecia uscisse dall’euro, e venisse smentita la convinzione generale secondo cui è impossibile abbandonare la moneta unica, si rischierebbe una fuga di capitali e di depositi dai Paesi ritenuti più deboli: perché tenere i propri soldi in una banca italiana, spagnola o portoghese, quando c’è il rischio che quei depositi vengano un giorno convertiti in valute più deboli? Perché comprare BTp italiani o Bonos spagnoli, quando i Bund tedeschi saranno potenzialmente denominati in marchi? È questo il motivo per cui i rendimenti decennali tedeschi continuano a scendere: la logica di chi compra Bund all’1,47% (ben sotto l’inflazione) è principalmente valutaria. Di fatto, chi compra Bund compra marchi.

E in effetti la fuga di capitali e di depositi è già iniziata. Non solo in Grecia, dove solo dalle elezioni del 6 maggio sono usciti 700 milioni di euro dalle banche. Ma anche in Spagna, secondo una stima di Ubs, già 65 miliardi sarebbero fuggiti negli ultimi mesi dai conti correnti. In Italia il totale depositi resta stabile, anzi in lieve aumento. Ma quello che preoccupa – guardando i dati dell’Abi – è la fuga dei capitali esteri: a febbraio 2012, per l’ottavo mese consecutivo, i depositi dall’estero sono infatti calati del 16,3% rispetto al febbraio 2011. Idem per i titoli di Stato.
Altro elemento peggiore, rispetto a novembre, è rappresentato dall’economia. Le stime sulla crescita in Europa del 2012 sono tutte peggiorate (si veda grafico a fianco). Per di più la disoccupazione è in aumento, fino a diventare una piaga in Paesi come la Spagna (24%) o la Grecia (21,7%). Questo sta fomentando le tensioni sociali (ovvie e legittime) e sta impantanando la classe politica nell’indecisionismo. «Il rischio maggiore – sostiene un banchiere – è quello della balcanizzazione della politica in Europa».

La cautela dei mercati
Eppure oggi i mercati finanziari mostrano inferiori segnali di stress. I rendimenti dei titoli di Stato, con l’eccezione spagnola, sono più bassi: lo sono quelli italiani (dal 7,20% di novembre al 5,80% attuale), ma anche quelli francesi (3,20% contro il 2,89%). Le Borse europee rispetto ai minimi toccati a novembre restano in rialzo del 4%. E anche gli indicatori “risk reversal” oppure quelli che calcolano le posizioni “corte” (cioè in vendita) mostrano tensioni inferiori oggi rispetto a novembre.
C’è solo un indicatore che, dietro le quinte, mostra allarme crescente: il mercato dei credit default swap. Secondo i calcoli di Martingale Risk, le probabilità di default implicite nelle quotazioni sono oggi più alte per tutti gli Stati (tranne l’Italia): la Spagna ha una probabilità di finire insolvente nei prossimi 10 anni del 58%, contro il 49% di novembre. Persino la Germania oggi è più a rischio (18%). Segno, forse, anche i mercati adottano il motto «fidarsi è bene, non fidarsi è meglio». Segno che la speranza di futuri interventi della Bce sono compensati dalla consapevolezza che l’indecisione politica potrà peggiorare la situazione.

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