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Un vertice in cerca di idee

Un modo per tamponare le “attese dei mercati” ed evitare che un assolutamente certo nulla di fatto si trasformasse in un ennesimo bagno di sangue.

Vedremo in mattinata sel piazze finanziarie concederanno altro tempo a questa Europa dalle scelte lente.

Ma è indubbio che le strade davanti ai leader continentali siano tutte oggi alquanto strette. La strada che dovrà esser presa dovrà esser percorsa con convinzione e senza perdere pezzi per strada, altrimenti in deragliamento della costruzione europea sarebbe certo. Quindi la fase di riflessione (e di assestamento tra i diversi interessi nazionali e delle rispettive compagnie multinazionali) non può esser breve. La riunione di ieri, da alcuni presenti, è stata decreitta addirittura come un brain stroming, uno scambio di idee in libertà, ovvero un primissimo passo per orizzontarsi.

Si fa presto infatti a ripetere che “bisogna coniugare rigore e crescita”. Anche gli asini – e chi dirige l’Europa, o cerca di farlo, non lo è – sanno che si tratta di due obiettivi opposti. Si tratta dunque di uscire dal rigorismo cieco imposto dall’asse Sarkozy-Merkel e cominciare a sterzare.

Il “tappo” è costituito dal quella che ormai appare come una frazione isolata di una potenza isolata. La Merkel è ancora cancelliere tedesco, ma non lo è già più dopo la sconfitta in Nord Reno Westfalia. A Berlino, tra un anno, ci sarà un’altra coalizione di governo, con orientamenti leggermente diversi.

È vero infatti che la Germania ha prosperato sul rigore imposto agli altri. E lo sanno benissimo i principali candidati a sostituire la massaia triste. Il presidente del Parlamento europeo, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz, ha criticato pubblicamente il proprio Paese ammettendo quello che tutti sanno: «La Germania deve riflettere», perché la situazione attuale «a lungo termine non è sostenibile». I tedeschi oggi «sono avvantaggiati dall’avere prestiti allo 0,01% mentre gli altri pagano il 6%»; ma con il tempo «non ci sarà più un mercato europeo per i prodotti tedeschi», perché «gli altri non avranno i mezzi per comprarli».

Stupiscono, in questo contesto, le analisi di certi “consigliori” nostrani che ancora non riescono a cogliere il cambiamento di priorità nell’agenda di tutti i governi nazionali. C’è qualche genio che ancora ripete “la Germania, sta dimostrando nei fatti che rigore e sviluppo economico possono, devono, camminare insieme”. Certo, se il rigore vale per molti e la crescita per uno soltanto (ed anche piuttosto stentata, va aggiunto).

Va letta in questa chiave – “occorre cambiare l’impostazione e gli obiettivi delle scelte europee” – la riaffermazione della volontà comune di mantenere la Grecia dentro l’euro. Se infatti la sua uscita, come diceva ieri, Bundesbank, è “preoccupante, ma gestibile” sul piano finanziario, metterebbe comunque in dubbio la credibilità dell’intera costruzione. Se un paese può uscire e morire per conto proprio, come ci si può fidare dell’Unione?

Insomma, si sta prendendo atto che su Atene è stato condotto un esperimento criminale e sanguinoso. Che è fallito anche negli obiettivi dichiarati: il rigore, in tempi di recessione, è un salasso su un ferito che ha già perso sangue.

 

Ma non c’è un anno e mezzo da attendere.

Un altra politica serve ora, con la Merkel o senza, ma da subito. E qui sorgono i problemi concreti: con quali strumenti?

In assenza di uno stato continentale e di un governo altrettanto potente, ogni misura sembra un palliativo. Project bond, rifinanziamento della Bei, eurobond… Tutte idee buttate lì sul tavolo, ma che richiedono quantomeno un un’unica politica di bilancio in tutti i paesi dell’eurozona. Non un’”impostazione simile”, ma proprio un bilancio unitario e unico. Come se quello stato continentale ci fosse. La contraddizione tra forma e contenuti, tra istituzioni e dimensione delle scelte, non potrebbe essere più evidente. Ma questa Europa non può restare in mezzo al guado, tra trattati faraonici nelle dimensioni cartacee e istituzioni politiche pigmee. In qualsiasi direzione decisa di muoversi ci saranno altri strappi dolorosi per molti. Un’integrazione reale toglierà molti vantaggi competitivi al paese più forte; una rottura e il ritorno alle nazioni solitarie è difficile anche da immaginare.

Quindi, ancora un volta, diventerà decisivo il “come?” l’Unione andrà avanti. Per un insieme partito col passo più stupido (fare una moneta unica e non darsi né istituzioni di governo unitarie, né piani d’uscita in caso di diffioltà) è un bel problema.

 

 

Di seguito gli articoli de Il Sole 24 Ore, che dettagliano al meglio le riunioni di ieri sera e il punto di vista “geniale” dei consigliori ancora attestati sulla vecchia riva del fiume, quella del rigore.


 

 

 

Francia e Germania restano lontane

Beda Romano

La drammatica crisi politica in Grecia e la difficilissima situazione bancaria in Spagna hanno fatto ieri sera da sottofondo a un incontro informale tra i 27 per discutere di crescita dell’economia e futuro dell’Unione. La partecipazione per la prima volta del nuovo presidente francese François Hollande a un vertice europeo ha scompaginato i vecchi equilibri. Molti disaccordi apparenti tra Francia e Germania, ma anche il desiderio di evitare strappi e isolamenti.

L’incontro informale, «una sessione di brain storming» come l’ha definita un diplomatico europeo, è stato voluto dal presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy con l’obiettivo di mettere sul tavolo le varie soluzioni utili a rilanciare la crescita economica e a trovare una soluzione strutturale alla grave crisi debitoria. Dietro alle affermazioni di principio e agli schieramenti di prammatica si nasconde una discussione che ha fatto un innegabile salto di qualità.
Sulle misure concrete se ne riparlerà in giugno, aveva preavvertito Van Rompuy. Ieri alla cena sono state trattate tutte le idee circolate in questi giorni per rilanciare l’economia europea senza sacrificare il rigore di bilancio: dalla ricapitalizzazione della Banca europea degli investimenti al riorientamento del bilancio comunitario, dalle obbligazioni a progetto (project bonds in inglese) alla tassa sulle transazioni finanziarie, al rafforzamento del mercato unico.

Le dichiarazioni della vigilia hanno messo in luce il confronto franco-tedesco, per certi versi anche l’isolamento della Germania. Da un lato il cancelliere Angela Merkel prima dell’inizio della riunione ha ricordato che agli occhi dei tedeschi la mutualizzazione dei debiti è ancora prematura, in un contesto nel quale i bilanci sono ancora nazionali. Le obbligazioni europee, ha precisato la signora Merkel, «non aiutano la crescita economica». Sullo stesso fronte l’Olanda e la Finlandia.
Dall’altro, Hollande ha spiegato che senza maggiore crescita economica l’Europa non raggiungerà i suoi obiettivi di bilancio. E ha aggiunto: «Gli eurobond fanno parte della discussione». L’elezione di Hollande ha scosso gli equilibri europei. Ieri il neo presidente non ha visto a tu per tu la signora Merkel prima del vertice, come era consuetudine quando all’Eliseo c’era Nicolas Sarkozy. Ma ha incontrato prima il premier spagnolo Mariano Rajoy a Parigi e poi il premier italiano Mario Monti a Bruxelles.

Proprio nell’incontro italo-francese sono emerse visioni simili sulla necessità di rafforzare l’integrazione anche attraverso l’emissione di obbligazioni europee. A cena ancora in corso ieri sera l’obiettivo di Van Rompuy era di prendere atto delle divergenze, ma anche di sottolineare il desiderio di trovare posizioni comuni; evitando un isolamento troppo marcato (e dannoso) della Germania. In tempi di crisi greca e forte indebolimento dell’euro divisioni troppo apparenti sono pericolose.
Mentre i leader erano riuniti per cena, il presidente del Parlamento europeo, il tedesco Martin Schulz, ha criticato pubblicamente il proprio Paese: «La Germania deve riflettere», perché la situazione attuale «a lungo termine non è sostenibile». I tedeschi oggi «sono avvantaggiati dall’avere prestiti allo 0,01% mentre gli altri pagano il 6%», ma con il tempo «non ci sarà più un mercato europeo per i prodotti tedeschi», perché «gli altri non avranno i mezzi per comprarli».

Proprio sul delicato fronte economico, il Consiglio ne ha approfittato ieri per assicurare la volontà di mantenere la Grecia nella zona euro, mentre il presidente della Commissione José Manuel Barroso ha presentato ai leader i primi risultati di un programma di riorientamento dei fondi strutturali per combattere la disoccupazione giovanile. In Italia, sono stati riallocati in pochi mesi 3,6 miliardi di euro. A beneficiare del programma dovrebbero essere 128.300 giovani e 200 piccole e medie imprese.

 

Eurozona senza Grecia? Voci e smentite sul piano B

Ennesimo giallo sulla crisi ellenica a margine del 18° vertice Ue dall’inizio della crisi di Atene. Ogni paese membro dell’Eurozona dovrà preparare un piano di emergenza in vista dell’eventuale uscita (Grexit in gergo) di Atene dall’eurozona. Lo avrebbero indicato lunedi, durante una teleconferenza, i funzionari del Tesoro dell’Ewg,(l’Euro working group) il team di lavoro dell’Eurogruppo, gli “sherpa” che preparano i meeting dei ministri delle Finanze europei nella capitale belga.

Una fuga di notizie che fonti europee hanno tentato subito di stoppare, affermando che nella riunione tecnica di lunedì «si è solo discussa la situazione dei mercati finanziari e della Grecia, ma non vi sono stati accordi su piani di emergenza né si è discusso di un’eventuale uscita della Grecia dall’euro».
Smentita secca anche dal ministero delle Finanze greco che, in un comunicato ufficiale diffuso ad Atene, ha definito senza mezzi termini «falsa» la notizia. Queste notizie «non solo sono false ma nascondono gli sforzi della Grecia per fronteggiare le sfide in questo periodo critico», ha detto il neo ministro Giorgos Zannias. Insomma manovre per colpire l’euro e il salvataggio di Atene.

Poi è arrivata l’uscita a gamba tesa del ministro delle Finanze belga, Steven Vanackere, a Bruxelles per il vertice Ue informale sulla crisi, secondo cui i piani di emergenza per un’uscita della Grecia dall’euro esistono ed è «irresponsabile» affermare il contrario. Il ministro ha aggiunto che i governi devono insistere negli sforzi per evitare l’uscita di Atene dall’Eurozona ma ciò non vuol dire che «non ci stiamo preparando a tale eventualità». Dopo la girandola di conferme e smentite ufficiose rimbalzate in tutta la giornata di ieri, le esternazioni a ruota libera sul tema dei membri dell’Eurogruppo non hanno certo contribuito a tranquilizzare i mercati.

Intanto le agenzie di stampa diffondevano a raffica le rivelazioni delle fonti dell’Ewg. «Il gruppo – ha spiegato uno degli sherpa – ha concordato che ciascun paese di Eurolandia prepari un piano di emergenza, individualmente, per capire le potenziali conseguenze di una fuoriuscita della Grecia». L’Institute of International Finance parla di mille miliardi di dollari di perdite nel caso di un’uscita di Atene. Secondo le fonti interpellate, i piani nazionali servirebbero a dettagliare il costo per ogni singolo paese di un addio di Atene all’euro, con la Grecia la più penalizzata. E, per prepararsi a un eventuale “divorzio consensuale”, sarebbe stata addirittura ipotizzata l’elargizione di 50 miliardi di euro ad Atene da parte di Ue e Fmi.

La notizia sui piani nazionali da predisporre nel caso in cui Atene torni alla dracma si è accompagna a quella, riferiti dal settimanale tedesco Die Zeit, secondo cui anche la Bce avrebbe predisposto un gruppo di crisi, per affrontare gli scenari post-voto greco del 17 giugno, guidato da Joerg Asmussen, il tedesco membro del comitato esecutivo dell’Eurotower.
E se il premier Mario Monti abilmente si limitava a un «No comment», in risposta a quanti chiedevano un commento sui presunti piani sull’eventuale uscita della Grecia dall’euro, altri non si sottraevano rendendo la giornata una cacofonia europea di voci.

I leader comunitari hanno ribadito di volere la Grecia nell’Eurozona, ma nel rispetto da parte di Atene del piano di stabilizzazione concordato con Ue, Bce e Fmi. È quanto ha affermato il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, al premier greco ad interim, Panagiotis Pikrammenos, ieri a Bruxelles. «Ho ribadito la forte volontà della Commissione affinché la Grecia resti nell’Eurozona e che continueremo a fare tutto perché questo avvenga» ha dichiarato Barroso rimarcando «l’importanza che Atene mantenga i suoi impegni».

Il portavoce della Commissione, Olivier Bailly, ha poi sottolineato che a Bruxelles non c’è alcuna intenzione di «esplorare scenari alternativi» al rispetto degli impegni assunti da Atene nei riguardi della troika. «Vogliamo che la Grecia resti nell’Eurozona», ha affermato il portavoce Ue. Per questo Bruxelles, in vista delle elezioni del 17 giugno, ha espresso una «forte preferenza» perché dal voto emerga una «coalizione che metta in atto il memorandum» per il secondo piano di aiuti e risanamento firmato dal precedente governo di Atene con la trojka.

 

 

Il buon inizio (internazionale) del presidente francese

di MarcoMoussanet

Crescita! È ormai diventata la parola magica che caratterizza vertici, comunicati, discorsi, conferenze stampa. E il neo presidente francese François Hollande ne è il portavoce, l’alfiere, l’eroico propulsore. Come se prima di lui il termine non esistesse neppure.
Non è vero, ovviamente. Il tema della crescita, non contrapposta al necessario risanamento dei conti pubblici, è sul tappeto da tempo. E il Paese che viene presentato come il maggior nemico dell’Hollande-pensiero, la Germania, sta dimostrando nei fatti che rigore e sviluppo economico possono, devono, camminare insieme.

È però vero (la Grecia è lì a dimostrarlo) che l’aver nettamente privilegiato l’austerità, di fronte all’emergenza della crisi del debito, ha certo ridotto l’azzardo morale degli Stati ma ha duramente colpito l’economia. E i gruppi sociali più fragili.
Com’è vero che Hollande ha fatto della crescita il leit motiv della sua campagna elettorale. E ora, con abilissima operazione di marketing politico, sta raccogliendo i frutti.

L’esordio dell’uomo della crescita sulla scena internazionale, lui che non ha mai neppure fatto il ministro, è stato pressoché perfetto. Con il viaggio a Berlino è immediatamente diventato il popolare capofila di tutti quelli che mal sopportano i diktat tedeschi (e mal sopportavano il direttorio franco-tedesco). Negli Stati Uniti è stato accolto calorosamente da un Barack Obama terrorizzato dalle possibili conseguenze di una recessione europea. Ha esordito con successo al G-8 ed è persino riuscito, con qualche concessione e grazie alle celebri doti mediatorie, a far accettare senza troppi mugugni al vertice Nato la partenza anticipata delle truppe francesi dall’Afghanistan. Da dove chiunque vorrebbe andarsene il più rapidamente possibile.

Sta giocando abilmente la partita degli eurobond. Tutti sanno benissimo che questo sarà il punto d’arrivo inevitabile del processo di integrazione europea. E tutti sanno anche che non si possono fare in tempi brevi. Pretendere che se ne parli, in fondo, non è molto rischioso.
Tutto bene, quindi? In realtà il difficile arriva adesso. Con il vertice europeo di fine giugno (di cui quello informale di ieri sera è solo un prologo). E con le misure che Hollande dovrà varare, in Francia, per dimostrare con i fatti come si possono conciliare crescita (vera) e disciplina di bilancio. Servono nuovi sforzi fiscali e soprattutto profonde riforme strutturali, a partire da quella del lavoro. È su questo, più che sulle immagini di un primo exploit diplomatico, che Hollande verrà giudicato. In casa e fuori.

 


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