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Siria. I reportage “fuori fuoco” che nessuno riprende

In effetti le informazioni preziose che Cerri manda “sbattono” alquanto con l’informazione “embedded” che viene presa per buona nelle redazioni mainstream e non solo. Per esempio che questa zona di Turchia non gradisce affatto che si attacchi la Siria; oppure che da qui passano a fronte militanti qaedisti che la polizia turca non ferma, ma il numero preoccupa ormai anche i “resistenti” siriani.
Pensiamo quindi di fare un’opera giornalisticamente sensata proponendovi questi brevi report che proprio non riescono a “bucare” l’attenzione del caporedattore-tipo di una redazione-tipo italiana. Probabilmente c’è un baco nel “pluralismo” delle testate dominanti.


Antiochia. I turche che amano Bashar Assad

La piccola folla che circonda il gazebo dell’Isci Partisi, piccolo partito della sinistra turca, in Hurriyet Caddesi, il viale del passeggio di Antiochia, farebbe invidia a tanti militanti italiani: le firme piovono per chiedere la chiusura dei «campi dei terroristi», 25mila in tre giorni. Paradossalmente la maggior parte degli 11 campi allestiti dal governo turco lungo la frontiera con la Siria per accogliere profughi e disertori dell’esercito di Assad sono nella provincia di Antiochia – Antakya in turco – dove la maggioranza della popolazione è alawita. Come Bashar al Assad e l’elite del regime siriano. Nelle ultime settimane la gente è scesa in piazza tre volte per sostenere Assad e protestare contro la politica muscolare del premier islamico sunnita turco Recep Tayyip Erdogan e il suo sostegno ai ribelli siriani. «La sua strategia favorisce Al Qaida e la Cia» attacca il leader del Isci Partisi Kefrem Yildirim. «I ribelli non sono certo meglio di Assad, vogliono instaurare un regime islamico e la sharia, schiacciare le minoranze», aggiunge. Ad Antiochia molti la pensano come lui. E non solo perchè Bashar al Assad è il solo capo di stato alawita al mondo. C’è anche molta paura che la guerra contagi anche la Turchia, e per prima la punta di territorio turco incuneato in Siria lungo il Mediterraneo che è la zona di Antiochia, 30 chilometri dall’inferno di Aleppo. «La Siria ha armi chimiche e biologiche. Se messa contro al muro forse le userà», avverte Zeynep, una giovane impiegata d’albergo. «Noi siamo più con Bashar che con Erdogan» chiarisce. L’afflusso crescente di profughi e disertori siriani, quasi tutti sunniti, preoccupa molti antiochiani. «I campi sono basi arretrate per i terroristi. Vivono li con le famiglie, la mattina vanno a combattere in Siria e tornano la sera», sostiene Yildirim. A 15 chilometri dalla città, a Hasipasa, c’è anche il più grande campo riservato ai militari disertori siriani. «Sappiamo che la guerra arriverà fin qui», sospira Suleyman Cicek, un anziano signore che lavora in un ufficio legale. Gli alawiti vengono da una lunga storia di violenze, discriminazioni, stragi nel mondo sunnita. L’ultima in Turchia 19 anni fa quando in una città dell’Anatolia una folla sunnita inferocita ha dato fuoco a un albergo in cui si svolgeva un festival di poesia alawita: 30 persone sono morte bruciate vive. «Per ora, precisa, in Turchia non abbiamo problemi. Per ora…». Se Assad cade, sarà strage di alawiti in Siria avverte Kerem, studente di sinistra. «Ma pensate davvero che l’Esercito siriano libero sia meglio di Assad?» chiede. «All’inizio anche gli alawiti partecipavano a Damasco alle manifestazioni per le riforme, per più democrazia. Ma le potenze straniere sono intervenute, con i loro interessi. La militarizzazione del conflitto ha messo il bavaglio a tutti. Restano solo i combattenti sunniti, i Fratelli Musulmani, e la prospettiva di uno stato islamico. E forse una guerra che coinvolgerà tutto il Medio Oriente, noi per primi».

Antiochia. La città di S. Pietro “porta” per il jihad

Fermo sul marciapiede mentre aspetta che arrivi la macchina che deve portarlo al confine e alla Jihad, indubbiamente stona in mezzo alle belle ragazze in abiti aderenti e agli indaffarati uomini turchi di Antiochia che gli passano accanto: lunga barba squadrata sulle guance alla moda salafita, pantaloni e camicia di cotone bianchi larghi, lo sguardo deciso di chi ha una missione da compiere. Dice di chiamarsi Abdullah e di arrivare da Marsiglia per, «se Dio vuole», combattere contro «l’assassino infedele Assad». Andrà al confine, a 40 chilometri da Antiochia, per cercare un’unità ribelle che lo prenda con sè e lo faccia passare in Siria. Dall’estero «arriveranno altre migliaia di combattenti», spiega. L’afflusso dei mujaheddin fondamentalisti, spesso legati alla nebulosa di Al Qaida, spaventa l’Occidente e rischia di cambiare le carte della crisi. «Sono molto discreti. Restano una notte e poi vanno via», racconta l’impiegato di un albergo del centro. Due millenni fa città di San Pietro, che ne fu il primo vescovo (scavata nella montagna c’è ancora la Chiesa grotta in cui avrebbe celebrato la messa), mille anni dopo principato baluardo crociato in Medio Oriente, Antiochia (Antakya o Hatay in turco) è ora la porta d’ingresso verso la Siria per molti ‘nuovi crociatì della guerra santa fondamentalista. «Decine di loro sono passati da qui», racconta Zeynel, un camionista turco alawita che era in Libia durante la rivolta contro Gheddafi: dice di avere riconosciuto alcuni jihadisti libici ad Antiochia. Negli ultimi mesi sono passati ‘veteranì dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, tunisini, egiziani, musulmani europei immigrati della seconda o terza generazione. Antiochia è un punto di passaggio ideale. È l’ultimo pezzo di Turchia incuneato a sud lungo la costa in territorio siriano. È a 20 minuti dal confine, a 40 da Aleppo e Idlib. Il controllo della frontiera da parte siriana, abbandonato dai governativi, ora è nelle mani dei ribelli. La Turchia, che appoggia la rivolta sunnita anti-Assad, non li ferma quando passano il confine. Da qui è passato anche il libico Mahdi al-Harati, capo dell’unità jihadista più tenuta in Siria, la brigata al-Nusra. Il peso crescente dei combattenti stranieri fondamentalisti preoccupa ora non solo americani e europei, ma anche gli stessi ribelli siriani. Vengono accolti senza fare troppe storie dall’opposizione armata. Tutto quello che può aiutare a rovesciare Assad va bene. Ma poi «costituiranno una vera minaccia per la nostra società e per i nostri amici arabi ed occidentali», che sperano in una futura Siria democratica, avverte Ahmad Fahd al Nimah, comandante dell’Esercito siriano libero (Esl) a Deraa. L’obiettivo dei combattenti della Jihad è chiaro. Rovesciare lo sciita alawita Assad e istituire un regime islamico sunnita fondato sulla sharia. Non è chiaro ancora quanti siano, quanti siano collegabili a Al Qaida. Ma il loro numero cresce ogni giorno. E anche la loro influenza sul terreno. Molti sono esperti in armi, esplosivi, comunicazioni, tecniche di guerriglia, attentati kamikaze o meno. I loro attacchi si concentrano soprattutto su Damasco (53%) e Aleppo (20%), i due centri nevralgici del potere siriano, secondo un analista Bbc. Sanno dove i colpi fanno più male al regime.

Ora la Turchia teme il contagio della guerra

«Erdogan ci aveva promesso ‘zero problemi con i vicinì, ma oggi siamo ai ferri corti con tutti i paesi confinanti, Iraq, Iran, Armenia, Grecia, Cipro, e siamo sull’orlo della guerra con Damasco» tuona, mentre sorseggia un caffè turco, Ahmet, giovane studente alawita di Antiochia. Qui, sulla frontiera con la Siria, molti sono convinti che la guerra è a un passo. La tensione cresce e così la rivolta contro la politica muscolare sulla crisi siriana del premier islamico sunnita Recep Tayyip Erdogan, che ha sposato la causa dei ribelli sunniti rompendo l’amicizia personale con l’alawita Bashar al Assad. Gli ultimi sviluppi fanno paura. Due turchi sono stati rapiti in Libano dai miliziani sciiti dell’Hezbollah, vicino al regime di Damasco, per ritorsione contro il sequestro in Siria di un loro compagno da parte dei ribelli. Ankara ieri ha chiesto ai propri cittadini di non andare in Libano. Il Paese dei Cedri potrebbe essere il primo contagiato dalla guerra siriana. Altri turchi, simpatizzanti di Al Qaida, sono stati uccisi dalle forze governative ad Aleppo. E sul lato turco della frontiera, dove gli alawiti sono maggioranza, continuano ad arrivare migliaia di profughi e disertori siriani sunniti. Un cocktail potenzialmente esplosivo. Ankara moltiplica le manovre militari sul confine e minaccia di intervenire in Siria per impedire che il nord curdo diventi un rifugio per i separatisti curdi del Pkk, che vogliono l’autonomia del Kurdistan turco. Ma i sondaggi mostrano che non solo gli alawiti della frontiera ora temono una guerra. Il 60% dei turchi non appoggia la linea dura di Erdogan sulla Siria e non vuole un coinvolgimento militare. Al valico di frontiera di Reyhanli, vicino a Antiochia, intanto continua ininterrotto il flusso dei profughi in arrivo, per lo più donne sunnite velate e minori. Vengono da Aleppo e Idlib. Ora sono quasi 70mila nei campi turchi. Nelle ultime ore è arrivato anche un altro generale disertore, subito trasferito al campo di Hacipasa, a 20 chilometri da Antiochia, rigorosamente off limits per i giornalisti. Un mare di tende bianche allestito in mezzo ai campi e circondato da una barriera in acciaio. «No Press!», intima al cronista che si avvicina il soldato che difende la porta d’ingresso blindata. Qui vivono gli ufficiali disertori con le famiglie, circa 3mila persone. E da qui i 27 generali passati in Turchia secondo l’Esercito siriano libero (Esl) disegnano la strategia militare dei ribelli. Per lo meno di quelli che accettano di fare capo all’Esl. Gli ‘stranierì – in parte vicini a Al Qaida – agiscono per conto proprio. Ma la presenza sempre più numerosa di rifugiati, disertori e ribelli protetti dal governo turco suscita le proteste crescenti della popolazione locale alawita (un ramo ‘liberal’ dello sciismo). Gli ospedali di Antiochia sono pieni di ribelli siriani feriti. Il servizio sanitario è sull’orlo del collasso. Gli esuli siriani costano alla Turchia 300 milioni di dollari e gli aiuti promessi dall’estero non arrivano. «Non ci amano molto qui, ammette Brahim, un giovane arrivato da Aleppo. Per evitare problemi ho tolto il braccialetto con la scritta ‘Siria liberà: mi guardavano male».


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