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I buchi neri nella strategia Usa in Medio Oriente

Il «Fratello» Obama
Michele Giorgio
La crisi innescata dal film «L’innocenza dei Musulmani» e sfociata nell’uccisione a Bengasi dell’ambasciatore Usa Chris Stevens è il primo vero test dei rapporti tra Stati Uniti, Paesi occidentali e la Fratellanza Islamica arrivata in vetta dopo le rivolte arabe. L’Islam politico – da non confondere con il jihadismo e il salafismo armato – giunto al potere con le elezioni, ha fatto dei buoni rapporti con Washington e l’Europa un punto centrale del suo programma di politica estera (ed economica). Si è visto in particolare con le relazioni tra Fratelli Musulmani egiziani e l’Amministrazione Obama.
È stato evidente anche ieri con le dichiarazioni del raìs Mohammed Morsi al termine dell’incontro con il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, volte a rassicurare i Paesi occidentali che l’Egitto farà tutto il possibile per garantire la sicurezza degli stranieri e delle sedi diplomatiche. Lo ha confermato anche il tono della visita di Morsi a Roma. E l’imprenditoria italiana, che non ha le esitazioni del mondo della politica, ha già trovato il feeling giusto con i nuovi dominatori della scena egiziana. Da parte sua Khaled Abu Bakr, presidente del Business Council egiziano, è stato netto nel garantire che «I disordini non fermeranno i programmi economici del nuovo governo e dell’industria egiziana». Dopo la rivoluzione, ha spiegato Abu Bakr, «si sono aperte nuove possibilità per soddisfare nuovi bisogni. Sociale, formazione. Abbiamo bisogno di una zona industriale italiana, nelle piccole e medie imprese».
Sul piano economico il passaggio dai «vecchi» ai nuovi regimi non ha segnato alcun cambiamento nei rapporti tra l’Occidente e i Paesi arabi teatro delle rivolte degli ultimi 20 mesi. Per le multinazionali, le compagnie petrolifere e le imprese locali e straniere, tutto procede come sempre, incluso lo sfruttamento della manodopera a basso costo che abbanda nel mercato del lavoro arabo. E non vale solo per il dopo-Mubarak ma anche per il dopo-Ben Ali in Tunisia e, naturalmente, per la Libia post-Gheddafi, paese che, come si è visto, in politica, sicurezza e società, è in pieno caos ma che avanza a tutto vapore quando si parla di estrazione ed esportazione del petrolio, in collaborazione con i partner occidentali. Ed è facile immaginare che condizioni simili si realizzeranno se e quando cadrà il regime di baathista in una Siria dove i Fratelli Musulmani già oggi rappresentano la forza politica più organizzata per il dopo-Bashar Assad.
L’Amministrazione Obama ha mandato in pensione i vecchi dittatori (pseudo) nazionalisti attraverso i quali l’America ha controllato per decenni il Medio Oriente e si è tenuta la Giordania hashemita e le petromonarchie del Golfo, garanti assoluti degli interessi americani nella regione. Quindi ha scelto di credere alla partnership con l’Islam politico griffato Fratelli Musulmani. Ma a Washington non bastano le politiche economiche liberiste messe in atto da Morsi e dagli altri presidenti e premier islamisti. Barack Obama chiede all’Egitto, Tunisia e Libia di tenere il controllo della situazione come lo facevano i dittatori pensionati (o ammazzati nel caso di Gheddafi), di contenere gli eccessi dei salafiti e di rispettare gli accordi internazionali. Soprattutto di mostrarsi inflessibili con i jihadisti che dimenticano di aver ricevuto aiuti e armi americane nella lotta prima contro il comunismo e poi il nazionalismo laico, e finiscono per prendere di mira gli Stati Uniti. Obama è stato esplicito in un’intervista al network in lingua spagnola Telemundo. «L’Egitto non è un alleato e neppure un nemico» ha detto il presidente americano, avvertendo che se il governo egiziano «non si prenderà le sue responsabilità», in materia di sicurezza, «allora sarà un grosso problema».
Morsi che dovrebbe incontrare Obama alla Casa Bianca questo mese, pare pronto a pagare il prezzo dei buoni rapporti con gli Usa. E nelle scorse settimane ha percorso diverse tappe di avvicinamento al traguardo. A cominciare dal durissimo attacco che ha lanciato a Bashar Assad. Parole che, spera, gli serviranno a convincere la superpotenza americana dell’affidabilità dei Fratelli Musulmani egiziani. Intanto incassa l’aiuto economico del Qatar nemico della Siria e stretto alleato di Washington. Il primo ministro qatariota Hamad bin Jassem ha annunciato il 6 settembre che l’Egitto vedrà una ondata di investimenti del suo paese: 18 miliardi di dollari che si aggiungeranno a un prestito da 2 miliardi già in parte depositato nelle casse egiziane.

da “il manifesto”

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