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Cina. Condanna mite per l’ex capo della polizia

Si è chiuso ieri con una condanna «mite», 15 anni di carcere, il processo a Wang Lijun, l’ex capo della polizia di Chongqing che a febbraio, con la sua fuga al consolato Usa del capoluogo del Sichuan, ha fatto da detonatore allo scandalo politico più clamoroso degli ultimi decenni in Cina, determinando la disgrazia di Bo Xilai, ex capo del Partito comunista cinese a Chongqing.
Quattro le imputazioni: insabbiamento di indagini, defezione, intercettazioni illegali, corruzione. Per almeno due la legge prevede la pena di morte ma nei confronti dell’ex «super cop» la Corte di Chengdu ha voluto mostrare clemenza in ragione della sua collaborazione. Ha infatti contribuito alla riapertura delle indagini sul ruolo avuto da Gu Kailai, moglie di Bo, nell’omicidio dell’uomo d’affari Neil Heywood, e ha dato importanti informazioni che hanno portato alla scoperta di «gravi crimini commessi da altre persone». Non sono stati fatti nomi ma pare chiaro che si tratti di Bo Xilai. Dopo la sentenza di ieri, il cerchio si stringe intorno all’ex astro nascente della politica cinese, scomparso da marzo e ora nelle mani degli organismi disciplinari del Partito. Dopo la confessione del suo ex braccio destro, resta da capire se le accuse contro di lui resteranno confinate alla «violazione grave della disciplina», l’accusa mossagli finora, o se invece non dovrà essere consegnato all’autorità giudiziaria dopo il processo politico interno. E’ evidente che la decisione dipenderà da una valutazione tutta politica, nonostante gli sforzi di confinare l’affaire entro gli argini della cronaca nera. Un processo, per quanto a porte chiuse, che veda Bo esposto come criminale potrebbe essere ora rischioso.
Non è ancora chiaro, e forse mai lo sarà, quanto gli equilibri all’interno del Partito siano stati scombussolati dalla caduta di Bo Xilai, ma è certo che le trattative per ristabilirli sono ancora in corso. Lo suggerisce il fatto che ancora non sia stata fissata la data di inizio del fatidico 18esimo Congresso del Pcc, che sancirà non solo il cambiamento al vertice supremo ma anche quello di due terzi dei quadri. Non solo: il Politburo non ha neppure stabilito quando si terrà l’ultimo plenum del Congresso uscente, una riunione importante nel corso della quale si approvano le relazioni e le decisioni da presentare al Congresso successivo.
Quanto a Wang Lijun, forse la sua pena sarà ulteriormente ridotta, come ha fatto capire il suo avvocato, in considerazione delle cattive condizioni della sua salute mentale. Resta il fatto che il suo processo, e la sentenza che lo ha chiuso, lasciano irrisolti una serie di interrogativi, allo stesso modo del procedimento che ad agosto ha condannato Gu Kailai alla pena di morte sospesa per due anni. Due tronconi di inchiesta fortemente collegati e tuttavia scissi d’autorità per limitare i danni politici.
La deposizione di Wang riportata dai media ufficiali, gli unici ammessi in aula, non chiarisce affatto perché l’uomo, una volta insabbiate le indagini sulla morte dell’inglese, alla fine di gennaio abbia denunciato l’omicidio commesso dalla moglie di Bo Xilai, che lo avrebbe aggredito fisicamente e verbalmente, minacciandolo del peggio. I due facevano coppia da anni, condividendo una lotta alla criminalità spietata e talvolta extra legale che probabilmente ne aveva viste anche di peggio. Secondo la deposizione, Wang si sarebbe sentito in pericolo e avrebbe deciso di chiedere aiuto agli Usa. Una mossa disperata nella sua enormità che apre l’interrogativo sul perché egli non si sia invece rivolto ai vertici centrali, dove i nemici di Bo gli avrebbero volentieri dato una mano. Una risposta del tutto intuitiva può essere data ricordando le cronache dell’inizio dell’anno, che segnalavano la presenza a Chongqing di una squadra investigativa della Commissione centrale di disciplina, segno evidente che a Pechino qualcuno aveva deciso di aprire il fascicolo Bo Xilai per fermare la sua corsa ai vertici. Naturale che la caccia al marcio iniziasse con l’assedio al suo braccio destro Wang, il quale si è presto accorto di essere ormai stretto tra l’incudine della Commissione e il martello di Bo. Di qui la fuga verso gli Usa con le prove dell’omicidio Heywood; fuga ingenua oltre che disperata, perché ha sottovalutato la volontà americana di non infilarsi in uno scontro diplomatico alla vigilia del primo viaggio negli Usa di Xi Jinping, il futuro capo dei capi cinesi. Pare che Wang si fosse rivolto prima alla Gran Bretagna, venendone respinto.
Una trama alla Qiu Xiaolong, il famoso giallista di Shanghai. Del resto Wang Lijun ha la storia e il phisique du role di un personaggio da thriller politico. La «tigre siberiana» aveva una volta confidato allo sceneggiatore di una fiction della tv cinese a lui ispirata: «So esattamente chi sono: un pezzo di chewing gum nella bocca di quelli che comandano e quando si accorgeranno che non ho più alcun sapore mi sputeranno a terra, e dio solo sa dalle scarpe di chi sarò schiacciato».

da “il manifesto”
(che, se offrisse più spesso articoli di questa qualità, ci scommettiamo, non sarebbe affatto in crisi)

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