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La strage di Parigi mina i colloqui sulla questione kurda

Urlano sotto la sede dov’è avvenuto il triplice omicidio di tre loro militanti. Rue de la Fayette, 10° arrondissement né centro storico ma neppure banlieu, una zona trafficatissima cosa che mette in serissimo imbarazzo il ministro Valls. Eppure uomini e donne del Pkk e della Federazione delle associazioni kurde di Francia, di cui era rappresentante la trentaduenne Fidan Dogan una delle attiviste uccise, dovranno chiedersi quale Turchia ha armato la mano assassina. Naturalmente le indagini sul gravissimo episodio, diventato un pesantissimo macigno per il nuovo Esecutivo francese che sempre per bocca del Ministro dell’Interno definisce il crimine “inaccettabile”, sono rivolte in ogni direzione. Ma la dinamica: entrata dei killer dalla porta del locale associativo, peraltro non segnalato da nessuna tabella, e unico colpo alla nuca per due delle vittime (la Dogan e Sakine Cansiz, una delle fondatrici del Partito dei Lavoratori) lasciano intravedere uno scenario da professionisti dell’omicidio. Dunque anche dell’Intelligence, turca innanzitutto. E qui, pur restando sul piano delle congetture, bisogna chiedersi a quale Turchia possa giovare la mossa delittuosa.

Perché l’azione diventa di fatto un enorme ostacolo per il rinnovato contatto e possibile accordo fra i vertici dello Stato e il Pkk. I colloqui in corso da oltre un mese fra funzionari del Mıt e Abdullah Öcalan nel carcere di massima sicurezza dov’è rinchiuso da tredici anni, seppur resi difficili da richieste che ciascuna parte considera estreme, rappresentano un approccio realistico a una situazione cronicizzata dalla decennale reciproca fermezza. I passi compiuti dal governo Erdoğan costituiscono un fatto concreto che ha ricevuto il benestare anche del maggior partito d’opposizione (Chp) e di qualche irriducibile pensatore di destra. L’unica contrarietà e fermezza assolute per non cedere al “terrorismo” vengono espresse dai nazionalisti del Milliyetçi Hareket Partisi e dalla galassia di quelle formazioni dell’ultradestra, dai “Lupi grigi” ad altre schegge del paramilitarismo fascistoide turco. Queste e il Mhp avevano comunque un seguito all’interno di quelle Forze Armate, sottoposte da un paio d’anni al repulisti del premier in relazione alle inchieste della magistratura sui tentativi di destabilizzazione del Paese tramite attentati e l’ennesimo tentativo di colpo di stato. Si tratta del cosiddetto caso Balyoz che ha visto implicati nel complotto, e di recente, condannati generali, ufficiali intermedi e qualche militare di truppa.

Le dimissioni di fine luglio 2011 del Gotha delle Forze Armate, provocate o volontarie che fossero, è frutto anche dell’operazione di trasparenza voluta dal partito di governo (Akp) cui erano rivolti i tentativi golpisti del 2003. L’opposizione a Erdoğan additò l’iniziativa come l’ennesimo esempio di gülenizzazione cui sarebbero sottoposti due baluardi della laicità turca: Forze Armate e istruzione. Riguardo al sanguinario attentato parigino un’ipotesi è quella d’un sabotaggio operato da componenti paramilitari tuttora organizzate, e non necessariamente interne all’esercito, che cercano d’interferire con le iniziative del governo islamico. Oppure un segnale di durezza che gli stessi Servizi ufficiali, protagonisti dei contatti col Pkk, vanno a dare a qualche guerrigliero refrattario alla chiusura della lotta armata, prospettata per ora solo da Öcalan. Agghiacciante, ma improbabile, l’ipotesi fratricida (chi non ama il Pkk l’ha fatta) di un bagno di sangue per evitare un proseguimento dei negoziati al ribasso. Un analista dotato di buone fonti, Abülkadir Servi, ha ultimamente diffuso notizie sia dell’apertura d’un contatto parallelo che gli agenti del Mıt avrebbero dalla fine di dicembre con alcuni comandanti dell’area di Kandil, sia la richiesta da parte del leader detenuto a İmralı non d’indipendenza delle zone del sud-est ma di autonomia amministrativa attraverso l’accettazione turca degli articoli 4 e 5 della Carta Europea sui governi locali.

Sempre secondo il noto notista Öcalan avrebbe offerto agli interlocutori anche una cooperazione in Siria, dove il Pkk ha una forte presenza anche armata in rapporto al Democratic Union Party. Ma i delicatissimi equilibri che fanno sperare chi nei due fronti cerca la via dell’accordo subiscono con quest’attentato un terremoto. Fra i kurdi è vivo il ricordo del 1999, quando in una fase di colloquio fra le parti (allora il governo turco era guidato dal socialdemocratico Ecevit) alla scelta d’un ritiro guerrigliero dalle montagne seguì uno stillicidio di uccisioni con ben 500 miliziani uccisi. Nella questione kurda i timori sono atavici.

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