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Palestina. Non è possibile risarcire il dolore

Roma, 26 gennaio 2012, Nena News – Trascorsi due mesi dall’ultima offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza, che ha fatto 170 vittime tra i palestinesi, e dall’approvazione della risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per rendere la Palestina uno Stato osservatore non-membro dell’Onu, lo stallo nella questione israelo-palestinese sembra assumere sempre più i contorni di una cancrena. E le elezioni israeliane del 22 gennaio, che probabilmente sposteranno il paese ancora più a destra, contribuiranno a far sfumare ulteriormente le possibilità di un accordo di pace. Uno dei principali punti di contrasto continua a essere, ormai da decenni, la questione del rientro dei profughi palestinesi, cacciati dalle loro case sin dal 1948. Oggi quelli registrati dall’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi nel vicino Oriente, sono 5 milioni e 600mila, ma le stime parlano di oltre 7 milioni. Eppure sciogliere il nodo del diritto al ritorno è l’unico modo per arrivare a una soluzione, come ha spiegato Wasim Dahmash, professore di lingua e letteratura araba all’Università di Cagliari ed esponente dell’Associazione Gazzella. Il rientro dei profughi palestinesi è il presupposto imprescindibile per eliminare il regime di apartheid e la discriminazione razziale su cui si fonda lo Stato di Israele e per gettare le basi di una convivenza paritaria.

Che cosa vuol dire nascere fuori dal proprio paese di origine?
Nascere nella diaspora significa avere un senso di precarietà permanente, qualcosa che ti accompagna sempre e che si percepisce sin dall’infanzia. I massacri, le stragi e le atrocità commesse nei confronti dei palestinesi creano un senso di differenza rispetto agli altri, di particolarità, che si trasforma in precarietà, perché si ha la sensazione di nascere nel posto sbagliato. Questo senso di precarietà nel palestinese è qualcosa di costitutivo, di permanente, ed è ciò che differenzia lo sradicato dal migrante, che invece lascia il proprio paese, va a cercare lavoro e fortuna, si inserisce in un nuovo contesto economico e sociale e in alcuni casi non ha più intenzione di tornare. L’altro aspetto caratterizzante dei palestinesi della diaspora è la memoria frantumata, che va ricomposta continuamente. In condizioni di normalità la memoria fa parte del mosaico culturale in cui ciascuno è immerso e si rinnova ogni momento. Invece per il palestinese che vive nella diaspora ricostruire questa memoria è una necessità vitale, senza la quale lo sradicamento diventa letale.

In questo modo è stato possibile conservare la cultura palestinese fuori dal paese attraverso tutti questi anni?
La memoria fa parte di un tentativo di riconsiderarsi, di rifarsi un’identità. Nella storia palestinese c’è una cesura. A un certo punto un paese intero è stato cancellato e una società è stata fatta esplodere, è stata frantumata, dispersa. In un campo profughi si trovano persone di estrazione sociale differente, da storie e da territori diversi e quindi diventa necessario riconquistare la propria diversità, la propria particolarità, altrimenti c’è una perdita di personalità, di storia della propria comunità e anche della propria famiglia. E ricostruire la propria identità richiede una ricostruzione della memoria. Ma la memoria di oggi è molto diversa rispetto a quella storica, perché il dato fondante è diventato la pulizia etnica e la ricchissima storia passata della Palestina si è indebolita.

Come è percepita la memoria della terra di origine dalle nuove generazioni nate nella diaspora che non hanno mai visto la Palestina?
Il rapporto con la propria cultura in generale cambia, si modifica. La nuova generazione non conosce quasi niente della Palestina, sa pochissimo della geografia, del rapporto storico che i palestinesi hanno avuto con la natura che è fondamentale, è un rapporto vivo, che si ritrova in tutte le opere e nel percorso millenario della scrittura palestinese. Siccome nella nuova memoria il fatto più importante è quello della pulizia etnica, come reazione l’obiettivo immediato diventa quello del ritorno, della ricostruzione dopo la catastrofe. Ogni generazione che cresce dopo una guerra disastrosa si pone l’obiettivo della ricostruzione come ritorno, ovviamente impossibile, al passato. La stragrande maggioranza dei palestinesi sogna di tornare a qualcosa che non esiste più, perché il paesaggio è cambiato, ora è abitato dagli israeliani che lo modificano continuamente. Quindi bisognerebbe parlare di un ritorno a un futuro da costruire, non a un passato che non c’è più.

Il diritto al ritorno però è diventato sempre più marginale sul tavolo delle trattative.
La questione israelo-palestinese non si risolverà mai finché i palestinesi non avranno il diritto di tornare alle loro case. Il diritto al ritorno è inalienabile, non è negoziabile, non è frantumabile, non si può dividere dalla persona. Il problema sorge prima ancora della nascita di Israele. Quando si decise di creare uno Stato ebraico, si concepì uno Stato esclusivamente per gli ebrei, che avrebbe dovuto estromettere la popolazione indigena. La programmazione della pulizia etnica cominciò in Europa. Gli ebrei non conoscevano nemmeno la Palestina e quei pochi che l’avevano visitata la disprezzavano perché nella maggior parte dei casi erano di origine germanica, abituati ai boschi di castagno e di pino e disdegnavano la terra palestinese, una campagna di orti che somigliava molto alla Toscana. Però programmarono la pulizia etnica, perché volevano creare uno Stato per gli ebrei. Tutte le azioni del governo e dell’establishment israeliani, ma anche del movimento sionista, con le istituzioni, le associazioni, i gruppi e le persone che lo costituiscono, hanno sempre mirato a eliminare la presenza degli indigeni per modificare quel territorio, riscriverne la storia e il paesaggio, trasformandolo in un paese che potesse piacere agli ebrei provenienti dall’Europa centrale. Oggi la pulizia etnica è costante, quotidiana, strisciante ma sistematica. Ogni giorno si fa di tutto per ergere ostacoli al ritorno, per creare condizioni di vita impossibili e obbligare i giovani ad andarsene.

Il diritto al ritorno è un’opzione ancora praticabile? Esistono delle alternative?
La risoluzione 194 prevede per i palestinesi non solo il diritto al ritorno, ma anche il diritto al risarcimento per i danni che hanno subito. Mentre il primo diritto è realizzabile, il secondo non lo è, perché è impossibile risarcire una popolazione che ha perso il proprio territorio. Quante sono le sofferenze, quante sono le centinaia di migliaia di morti, quante sono le decine di migliaia di madri che hanno perso i propri bambini? Quanti sono i bambini che hanno perso i loro genitori? Quanti sono i feriti, quanti sono coloro che hanno subito danni irreversibili, sono stati cavie di armi nuove? Come si può risarcire tutto questo? Non è possibile risarcire il dolore. Quello che è possibile è un risarcimento morale nel momento in cui le potenze e i governi che hanno appoggiato questo massacro infinito riconosceranno le proprie colpe e chiederanno scusa al popolo palestinese, ma non si tratta di un risarcimento materiale. L’unica via possibile resta quella del diritto al ritorno.

In che modo è realizzabile oggi questo diritto?
I coloni israeliani venuti dall’Europa hanno creato uno Stato che esclude gli indigeni e quindi è basato sul sistema dell’apartheid. Ma non è stato possibile eliminare tutta la popolazione palestinese, in un primo momento perché la potenza coloniale non aveva i mezzi per farlo e oggi perché ci saranno sempre gruppi di palestinesi sparsi in tutto il mondo. Si può impedire loro di esprimersi, di organizzarsi, però ucciderli tutti non è possibile. I palestinesi non sono in grado di sconfiggere la potenza coloniale e la potenza coloniale non è in grado di eliminare i palestinesi, quindi qualche via di uscita si deve trovare. L’unica soluzione è la convivenza pacifica su una base di parità. Per farlo è fondamentale eliminare il sistema dell’apartheid. In questo modo si può concretizzare il diritto al ritorno ed è assolutamente realizzabile, può succedere da un momento all’altro.

Nena News, http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=49024

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