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Il “discorso sullo stato dell’Unione” in crisi

Il “discorso sullo stato dell’Unione”, pronunicato dal presidente davanti al Congresso Usa, è il più atteso dell’anno. Tanto più quello pronunciato ieri sera, dopo la rielezione, che dovrebbe rappresentare il “vero programma”, sganciato com’è da qualsiasi problema di riconferma individuale (ma altrettanto non vale per i parlamentari del partito democratico).

La lista è lunga (abbiamo già detto altrove del dimezzamento delle truppe in Afghanistan), e va scorsa con attenzione. Entro il 2015 vorrebbe portarlo dagli attuali 7,25 a 9 dollari l’ora, con una motivazione che dovrebbe essere ovvia: “nella più ricca nazione della Terra nessun lavoratore a tempo pieno deve essere obbligato a vivere in povertà”.

Sul piano sociale interno, Obama si propone di aumentare il salario minimo (negli Usa, dove non esistono “contratti nazionali di categoria”, ma solo quelli aziendali – e soltanto nelle grandissime imprese, nemmeno tutte – il salario minimo è fissato dallo Stato). “Questo singolo passo può aumentare le entrate di milioni di famiglie, facendo la differenza fra buoni alimentari e negozi, sfratti e affitti, stenti e ripartenze”. Insomma, una normale politica keybesiana, magari persino blanda, che di questi tempi – in Italia e nella Ue – rischia di essere scambiata per “socialismo”.

Idem anche per l’istruzione (“aumentare gli investimenti”) e le infrastrutture, citando lo stato pietoso in cui si trova la rete stradale federale (70.000 ponti da riparare).

Il punto è come finanziare queste iniziative senza peggiorare – anzi tagliando – il bilancio dell’Unione. La “politica fiscale” fa dunque la parte del leone, in parte perché va “riformata” (è noto che Obama preme per eliminare gli sconti fiscali per i ricchi decisi da Bush padre e figlio, e quindi aumentare l’aliquota oltre una certa soglia di reddito). Ma anche la sanità – con una popolazione mediamente sempre più anziana – rischia la scure su servizi essenziali, se il presidente che l’aveva fin qui difesa ammette ora che “una riduzione dei costi del Medicare” è “necessaria”.

Ripristinare una politica dell’immigrazione (se la popolazione invecchia, diventa necessaria più forza lavoro anche poco qualificata) senza far sollevare allarmi sulla “sicurezza” è stato un altro punto importante. E quindi Obama propone un “percorso verso la cittadinanza” anche per i clandestini (non ditelo a Borghezio e Maroni!), ma anche “più protezione alle frontiere”.

Il clima resta un argomento anche per muovere l’innovazione tecnologica e il Pil (anche qui: chi glielo spiega a Monti ecc?), e quindi Obama promette maggiore efficienza per le automobili da immatricolare (sul modello del “regalo” di Chrysler alla Fiat) e il raddoppio della produzione di energia rinnovabile. Ma senza far proprio il protocollo di Kyoto e i suoi vincoli.

“Non abbiamo bisogno di un governo più grande ma di un governo più intelligente nello stabilire le priorità su dove investire per la crescita”. Apertura ai compromessi, dunque, ma su una strada moderatamente innovativa.

L’apertura del negoziato con la Ue per l’apertura di un’area transatlantica di libero scambio è diventata a quanto pare per l’America una “scelta strategica” per contenere la rimonta della Cina (mai citata nin tutto il discorso!) e in genere dell’Asia quanto a produzione di ricchezza. Naturalmente è stata presentata come un’iniziativa capace soprattutto di “creare milioni di posti di lavoro”, anche se c’è da dubitarne, viste le ampie zone di sovrapponibilità tra le rispettive strautture industriali.

Saltiamo le frasi sulla “pace nel mondo”, pronunciate di pari passo con l’”impedire all’Iran di dotarsi dell’arma atomica”. Ma è sull’Afghanistan che l’Impero Usa dimostra la propria condizione di debolezza. Inutile restare in un paese dove non si può vincere e dove, soprattutto, non c’è nulla di significativo da conquistare.

L’altro elemento che conferma questo “arretramento” è la ribadita intenzione di ridurre drasticamente l’arsenale nucleare e missilistico, troppo costoso da manutenere.

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