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Siria, che fine hanno fatto i giornalisti italiani?

Ne fosse stato rapito soltanto uno da qualche altro gruppo “ribelle”, in altri paesi con altri regimi, saremmo rimasti probabilmente assordati dalle urla di giornali e televisioni concordi nel chiedere di stroncare con la massima fermezza quei “terroristi”. Chissà, magari CasaPound sarebbe andata da qualche parte a chiedere di dichiarare guerra e inviare i sommergibili nel deserto…

Invece nulla. Anzi, un’evidente imbarazzo che porta i giornalisti comunque incaricati di darne in qualche modesta misura notizia a usare parole veramnete “bizzarre” per definire i contorni e i soggetti in campo.

“Bloccati”, “fermati”… Nella trasmissione Coffee Break (au La7) si batte qualche record: “una troupe di giornalisti italiani è in difficoltà in Siria”.

Su NenaNews, al contrario, si cerca di dar conto delle poche motizie che circolano. Molto probabile che si stia trattando per un riscatto – in denaro o anche in armi – e ovviamente questo non sarà mai ammesso. “Mica trattiamo con i terroristi, noi!”… Ah, già, sono nostri “alleati”…

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Massimo riserbo e silenzio stampa. Questa la strategia mediatica della Farnesina sul caso dei quattro giornalisti italiani rapiti in Siria, a Nord di Damasco, il 5 aprile scorso, quasi una settimana fa.

Da allora il silenzio è assordante. Nessun commento, nessun aggiornamento. Le agenzie stampa e i principali quotidiani di informazione italiani e internazionali non riportano nuove informazioni da giovedì. Che siamo stati dimenticati? No di certo. Probabilmente a far calare il velo sulla loro sorte è l’intenzione del governo italiano a non gettare cattiva luce sui gruppi armati di opposizione al regime di Bashar al-Assad. Da tempo Roma, come molti altri Paesi occidentali, ha riconosciuto i “ribelli” come unici rappresentanti del popolo siriano, dipingendoli come combattenti per la libertà.

Eppure di crimini ne hanno commessi, al pari delle forze governative siriane. Intanto a pagare il prezzo di tale diplomazia sono i quattro reporter della Rai, impegnati in un video documentario per il programma “La Storia siamo noi”, dal titolo “Silenzio, si muore”.

Amedeo Ricucci, Susan Dabbous, Andrea Vignali e Elio Colavolpe restano nelle mani dei ribelli. “Non in stato di arresto, ma trattenuti”, dicono fonti vicine alle opposizioni, riprese dai media nazionali. Insomma, non sono in pericolo, solo in stato di fermo, come scrive su Facebook la blogger siriana in Italia, Aya Homsi. Difficile però cogliere la sottile differenza con quello che appare come un vero e proprio sequestro.

I quattro dovrebbero trovarsi ancora nel villaggio di Yaqubiya, dove erano stati portati dopo il rapimento per aver filmato – secondo i ribelli – siti militari sensibili. L’intelligence italiana è al lavoro, mentre il Ministero degli Esteri tace. L’ultimo commento risale a giovedì quando la Farnesina ha fatto sapere di essersi attivata e di seguire la vicenda. Fonti del Ministero hanno da subito affermato che non si tratta di un sequestro, ma di un fermo, e che i quattro giornalisti si trovano in mano a gruppi di ribelli membri dell’Esercito Libero Siriano e non a organizzazioni islamiste.

Per cui, secondo Roma, non c’è da preoccuparsi. Chissà se le famiglie di Ricucci, della Dabbous, di Vignali e di Colavolpe sono dello stesso avviso.

da Nena News

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1 Commento


  • aldo

    Bisognerebbe chiederlo a quegli strani quattro gatti della cosiddetta sinistra critica e non solo,difensori strenui dei ribelli tagliatori di gole e responsabili del rapimento dei giornalisti.

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