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Erdogan, tutte le pecche di un quasi presidente

Vorrebbe essere il presidente d’una Turchia grande e unita, ma la sua politica divide e negli ultimi due anni divide ancor di più. Lo sostengono in tanti mentre enumerano le pecche di Erdoğan che sulla rivolta nata al Gezi park d’Istanbul – e allargatasi a settanta province turche, settanta su ottantuno iller – si gioca un futuro che solo un mese fa sembrava scontato. Sulla sua strada già c’era il Capo di Stato uscente Gül, sodale che gradualmente si smarcava dagli eccessi di protagonismo dell’ex attivista perseguitato dal kemalismo che lo punì per l’intransigenza islamica. Ora dal poco detto e dal tanto non detto della casa politica comune la concorrenza potrà diventare una spaccatura. 

Moderatismo vero? Il progetto dell’Islam targato Akp che Erdoğan, la sua ombra e consigliere Davutoğlu, Gül medesimo proponevano voleva essere dialogante e moderato, accettare capitali e mercato, anche quello liberista che politici kemalisti prima di loro avevano introdotto in totale consonanza con l’Occidente e l’affarismo globale. Di quel premier, di cui qualche analista salva la tattica almeno sino al 2010, rimane poco. Altrettanto dello statista che spalanca le braccia ai fratelli palestinesi bruciati dal fosforo bianco di “Piombo fuso” e lancia minacce a Israele che gli uccide i figli sulla Mavi Marmara. Quindi aperture alle primavere arabe, all’islamico Mursi ma, si disse, più per promuovere il business delle “tigri anatoliche” al cospetto dei disperati bisogni egiziani. Poi i dolori con un confinante scomodissimo (un tempo amico ma non solo suo) che ha rovesciato il motto “zero problemi coi vicini” e la guerra civile siriana è entrata in casa come hanno drammaticamente visto gli abitanti di Reyhanlı. Nella ricchissima agenda erdoğaniana compare la recente storica mossa d’un fruttuoso accordo con la guerriglia kurda, ma pure questo potrebbe non bastare. 

Quale democrazia? Parecchi think tank, anche del mondo islamico, si domandano quale cultura della democrazia voglia incarnare la politica erdoğaniana quando rifiuta il principio del dissenso, quando ragiona solo con l’effetto euforizzante del proprio 50% elettorale. Quasi aizzando i sostenitori, che attendevano il rientro dal viaggio maghrebino, ha ribadito che i giovani di Taksim e dintorni sono una netta minoranza, puntualizzando che “non si può accettare una tirannide delle minoranze”. E a Gül che ricorda come “la democrazia non sono solo le elezioni” risponde indirettamente con uscite a effetto buone per eccitare gli animi dei suoi e di chi lo contesta: “faremo in pochi giorni ciò che l’opposizione non è riuscita a fare in tanti anni”. Doccia gelatissima per una ricomposizione del conflitto che secondo altri Erdoğan, in questi giorni di meditazione estera, ha deciso di rilanciare a fondo, giocandosi il tutto per tutto dentro il Paese e nel partito.

Scontro o dialogo? Ripresentare la riconversione del parco Gezi, pur privata della creazione del Centro commerciale (ma con l’immensa moschea e una riedizione delle caserme ottomane) significa riproporre il braccio di ferro. Questo però punterebbe a catalogare le ulteriori proteste di piazza che ormai producono scontri, come azioni violente di estremisti, anarchici e atei oppositori del progetto nazionale. Stimolare il sentimento  religioso e patriottico attraverso i simboli di culto e la rievocazione imperiale, pur in una riedizione dell’ottomanesimo che l’Akp aveva negli ultimi tempi accantonato, cercherebbe di abbracciare princìpi che animano gli stessi secolaristi, laici sì ma d’una Repubblica di religione islamica  come voleva Kemal Atatürk. Possono sembrare tatticuzze eppure potrebbero funzionare se la crisi si trascina, blocca una città cosmopolita, turistica e affaristica come la perla del Bosforo. Se incute tensione e ansia in quel ceto medio già in gran parte sostenitore del “sultano”, ma anche fra la gente comune, magari non giovanissima delle altre città della rivolta su cui pesano ricordi e paure delle dittature e brutture d’un passato non lontanissimo.
Colpo a effetto? Il calcolo dell’ambizioso e paternalistico premier che sogna un suo presidenzialismo potrebbe incepparsi contro la forza della ragione. Lo scansarsi dalla repressione come dai getti urticanti subìti dalla ragazza in rosso, che ora conosciamo come Ceyda Sungar dottore in urbanistica, ma che non vuole essere la Marianne di Gezi. Vuole però restare a Taksim assieme alle migliaia di coetanei che possono inceppare il disegno erdoğaniano con la resistenza. L’hanno già detto, hanno esposto intenzioni che possono avvantaggiarli per la giovane età mentre dalla sua il primo ministro ha solo nove mesi per le amministrative e dodici per le politiche. Prendere o lasciare. A meno che a farlo anticipatamente desistere dai bellicosi sogni di una gloria solo sua e da un passo che può diventare un disastro per la Turchia e una buona fetta della popolazione, non siano proprio i colleghi di partito. Basterebbe spedirlo in trasferta, stavolta definitiva, nella natìa Rize sul Mar Nero. Sebbene l’attuale real politik, a Damasco come al Cairo, indichi altro. 

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