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Il fantasma dei militari sull’Egitto diviso

La quale rintuzza e appronta oggi un venerdì di preghiera e sostegno che può portare a mille la tensione com’è accaduto a Mansoura, Delta del Nilo, con scontri fra fazioni, morti e tanti feriti. Dal 7 dicembre 2012, quando nei dintorni della dimora presidenziale di Al-Ittihadiyah le piazza laica e islamica si presero prima a pugni poi a fucilate tutto è diventato più difficile per il governo e per l’Egitto. Il filo, già teso, fra le spinte prodotte dalla Confraternita salita al potere e gli altri poteri del Paese – Forze Armate e Magistratura su tutti – si spezzava definitivamente col varo della nuova Costituzione e il conseguente decreto presidenziale che l’ha resa esecutiva. I partiti islamici acceleravano, è vero, ma gli avversari frenavano boicottando l’Assemblea Costituente, a loro dire troppo orientata verso una “Coranizzazione” del Paese con punte in odor di Sh’aria. Su quest’importantissimo passo della vita nazionale che voleva archiviare l’era Mubarak s’è concentrato per mesi il braccio di ferro fra islamisti e laici, sia quelli sinceramente innovatori sia i nostalgici del vecchio regime che avevano contrapposto Shafiq a Mursi.
E se un anno fa le aspettative di cambiamento, pur marcate dalle prediche delle eminenze musulmane vicine alla Fratellanza, erano diffuse fra la popolazione, il feeling che aveva segnato il successo elettorale dei partiti della Libertà e Giustizia e Al-Nour è gradualmente scemato. Colpa dei nervi tuttora scoperti che riguardano investimenti, distribuzione di risorse solo ipotizzate, lavoro e sicurezza. Mursi da neo eletto ha compiuto una doppia mossa che controbatteva le scelte del potere giudiziario giunto a sciogliere un’Assemblea del Popolo dove i deputati islamici vantavano un’amplissima maggioranza. I magistrati offrivano un’interpretazione retroattiva delle norme elettorali e questo scaldò non poco gli animi. Il presidente riunì ai primi di luglio 2012 quel Parlamento, aprendo una diatriba di potere. Lui e la Suprema Corte si rimpallavano accuse d’ingerenza. La seconda mossa fu meno lacerante: pensionamento anticipato per due pezzi da novanta della lobby militare, Tantawi e Anan. L’iniziativa non dispiacque all’intera Tahrir anche laica che dipingeva i due graduati come spettri macchiati del sangue dei martiri della Rivoluzione del 25 gennaio. Certi osservatori sostennero che sulla gerarchia prescelta, guidata dal generale El-Sissi, si consumava una specie di compromesso fra la nuova leadership e una forza inamovibile nella vita politica del Paese.
Nel conflitto in corso fra il cosiddetto Fronte di Salvezza Nazionale, dallo scorso inverno pronto a chiedere le dimissioni di Mursi forte d’una valanga di firme raccolte (si parla addirittura di 15 milioni), l’esercito s’è posto in disparte tranne che nei ricorrenti momenti di tensioni e violenze che intimoriscono la componente silenziosa, quella che non parteggia e non s’espone. Si tratta di ceti benestanti dei quartieri residenziali del Cairo, di professionisti e commercianti desiderosi della sicurezza ma non lontani dalla crisi, visto che la difficile situazione economica mette in ginocchio le loro stesse attività. Proprio dalla capitale, in cui sono attesi rinnovati cortei e contestazioni, giungono notizie di movimenti di truppe e mezzi. Non solo blindati e file di carri ma anche di caccia in volo. E se attivisti nazionalisti auspicano con alcuni striscioni attaccati alle lamiere grigioverdi che l’esercito stia col popolo, la cronaca registra anche una manifestazione sotto il ministero della Difesa che ha chiesto un ritorno dei militari alla guida del Paese. Il fantasma del Consiglio Supremo delle Forze Armate che solo un anno fa lasciava il posto a un presidente eletto liberamente. Già, ma lo lasciava davvero?

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