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Egitto. I ribelli con l’uniforme

 Da quando, due mesi or sono, il movimento Tamarod ha preso forma alcune strutture degli apparati della sicurezza si sono pubblicamente esposte manifestando critiche e disaffezione verso l’attuale governo. E’ il caso di Hesham Saleh, portavoce del Club degli ufficiali di polizia che dal canale satellitare ON TV ha apertamente accusato il presidente d’insensibilità verso gli oltre duecento agenti feriti negli ultimi episodi di violenza singola e collettiva. L’insicurezza è una delle tematiche cavalcate dall’opposizione al regime islamico e rappresenta un fattore cui prestano  attenzione il ceto medio e i patrioti dell’ordine. C’è poi la numerosa corporazione degli uomini in uniforme, un milione di persone fra poliziotti e soprattutto militari legati a una copiosa filiera socio-imprenditoriale delle cento e una attività economiche dell’esercito. All’epoca di Mubarak erano calcolati attorno ai cinque milioni che moltiplicati per 5 o 6, il numero medio dei membri d’una famiglia egiziana, raggiungevano l’impressionate cifra di 30 milioni d’individui. Un terzo del Paese che dal 30 giugno 2012 a oggi non è diminuito.

Toccato anch’esso dall’impasse dei finanziamenti che lo Stato può ricevere o meno dagli alleati esteri, ma pur sempre garantito rispetto alle categorie che hanno protestato nei due anni post rivolta: operai tessili e agricoltori del Delta del Nilo, pescatori di Port Said, impiegati, insegnanti e medici del Cairo, Alessandria, Mansoura. Militari e poliziotti sono soggetti forti e armati, temuti e rispettati nel passato, odiati col vento della ‘Primavera’ quando l’Egitto realmente ribelle si scontrava in piazza, piangeva i suoi martiri, denunciava pestaggi, abusi, torture, e al tempo stesso carezzati quando si sperava in un cambiamento di metodi per chi sostiene di voler difendere la nazione. Dalla comparsa della piazza doppia e contrapposta con tendenze sempre più violente le uniformi hanno tenuto un basso profilo anche nella repressione. Hanno difeso i simboli nazionali: Parlamento, peraltro deserto, Corte Suprema, ministeri e palazzo di Al-Ittihadiyah molto più delle sedi di partito messe a ferro e fuoco, come ben sa la Fratellanza Musulmana che ha ricevuto la calda attenzione degli oppositori in ogni città, compresa la collina cairota di Moqattam dove c’è la sua sede centrale.

Quando gli agenti hanno iniziato a pagare un tributo di sangue coi propri uomini, non solo nel buco nero del deserto dei Sinai dove agiscono inafferrabili jihadisti e contrabbandieri, ma anche nelle strade urbane allora l’insoddisfazione verso il governo islamico è montata velocemente. Tre settimane fa ai funerali del capitano Abdel-Aziz Abu Shakra, parenti e molti agenti chiedevano a gran voce le dimissioni di Mursi. Nonostante un iniziale rapporto morbido, sempre tacciato d’un reciproco e opportunistico interesse, oggi poche stellette credono che “l’Islam sia la soluzione”. Il popolo della Confraternita e altre formazioni musulmane, riavvicinate dopo la revanche laica, da piazze contrapposte o usando il simbolo di Tahrir proseguono una snervante conta numerica. Ieri solo decine di migliaia i pro Mursi nella periferica Nasr City e più numerosi e motivati gli oppositori sparsi in vari centri. Per questo motivo pur ripetendo che “la polizia deve rimanere neutrale, lontana da inclinazioni politiche e religiose” l’establishment militare sembra mostrare segnali d’insofferenza verso il logorante stallo che nulla risolve. E al Cairo, dove un milione o forse due di vetture sgassano nel caotico tran tran di smog e polvere, parecchi distributori lamentano carenze di carburante e si dice che scarseggi pure la farina. Mancanze che possono diventare più dannose dell’irrealtà laica e islamista.

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