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La rivolta antislamista consacra i generali

Dai rumors vaganti in queste ore il Capo di Stato non gode più del benestare statunitense, visto che Kerry in persona ha dato il via libera alla gestione politica della crisi da parte dei militari. Costoro sono la componente di cui Washington si fida da decenni perché con due presidenti usciti dai propri ranghi (Sadat e Mubarak) gli Stati Uniti hanno avuto una stabile sponda nel più popoloso Paese arabo a un passo dalla polveriera mediorientale dei Territori Occupati. La Casa Bianca che ha tremato per le primavere arabe e ha gioito al proprio sfiorire, nei mesi scorsi ha realisticamente accettato la via della normalizzazione incarnata dalla leadership della Fratellanza Musulmana che nel panorama islamico egiziano è una forza oggettivamente moderata, sostenitrice del sistema capitalistico, di equilibri imperialistici e strutturata per possibili governi.

Certo ha commesso errori mancando di avviare almeno uno degli obiettivi sociali su cui aveva costruito uno straordinario consenso elettorale e s’è incaponita a giocare la partita istituzionale attorno al tema di una nuova Costituzione rivelatasi un boomerang per la sua governance. All’ossessiva ricerca di alleanze, perché sul fronte islamico è pressata da salafiti e oltransisti che ha lusingato ma da cui riceve critiche crescenti non solo sulla fedeltà alla Shari’a, la Confraternita inanella continui forfeit. Ultimi quelli volontari di cinque ministri, fra cui spicca Mohammed Amr agli Esteri, mentre mesi or sono c’era stato uno scontro aperto su figure di governo criticate e quindi sostituite. Si disse per la spinta del duo imprenditoriale del movimento Al Shater e Malik. Uomini del fare non meno spregiudicati dei tycoon mubarakiani che stanno finanziando il movimento di contestazione non solo a Mursi ma alla Fratellanza. Così per evitare quella guerra civile evocata e finora combattuta più bastonate che a fucilate, per quanto certi “servizi d’ordine” armati funzionino da tempo su entrambi i fronti, si dialogherà d’una transizione che prevede certamente il sacrificio di Mursi assurto a simbolo di quanto l’establishment finora non ha fatto. 

Però difficilmente ci potrà essere un passaggio di testimone fra uomini della Brotherhood perché la composita opposizione punta all’allontanamento dalla presidenza di quello che definisce un regime e riceve ora anche l’adesione del partito Al-Nour uscito dalla neutralità verso i mai amati fratelli di fede. S’invocano nuove elezioni presidenziali quando la scadenza naturalmente prevista sarebbero le politiche e questa delegittimazione di cariche misurate dal voto può far riemergere un arbitrato militare come fu il famigerato Consiglio Supremo delle Forze Armate, organismo più che neutrale autoreferenziale e autoritario. La benevolenza con cui le attuali piazze della protesta guardano all’esercito “garante del popolo” può far pensare che questa diventerà la soluzione per evitare il caos nel Paese spaccato. I militari per farsi belli mettono le mani avanti dicendo di non chiamarlo colpo di stato. Il passo potrebbe non essere privo di spargimenti di sangue perché la base della Fratellanza si sente estromessa con la forza da una posizione acquisita col voto. Questa però è la storia, mai scontata.

Fra i tanti ribelli può restare deluso chi sperava in un Egitto rifiorito su basi nuove: né gli islamisti, né la lobby dei generali gli stanno offrendo un futuro. Non glielo offriranno i camaleonti del Fronte di Salvezza Nazionale e i mai morti mubarakiani nuovamente a un passo dalle vecchie trame. 

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