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E’ strage continua in Egitto

Nonostante il coprifuoco, la situazione in Egitto sembra ormai decisamente fuori controllo. I carri armati nelle strade hanno desertificato le piazze principali, e gli obiettivi considerati “strategici” sono protetti in modo pesante.

Il bilancio delle vittime presentato dal governo è già altissimo:  327 morti e 2.926 feriti, secondo i dati presentati dal ministero della Salute. I Fratelli Musulmani presentano ovviamente dati molto più tragici: «oltre 4.500 morti, la conta prosegue e anche l’identificazione in tre moschee, tre ospedali e 2 obitori»: lo riferisce via Twitter il portavoce dei Fratelli Musulmani, Gehad El-Haddad.

Come in tutte le situazioni di guerra civile aperta è impossibile qualunque verifica indipendente. L’unica cosa che si può dire con certezza è che il bilancio ufficiale è certamente inferiore ai numeri reali, mentre con qualche probabilità quello dei Fratelli Musulmani può essere in qualche misura gonfiato, sia per ragioni propagandistiche che per obiettiva confusione tra notizie sparse che si accavallano.

Questo massacro, in ogni caso, sta cambiando la geografia politica del Medio Oriente. Paesi che sono stati fin qui alleati nel sostegno ai “ribelli” siriani si ritrovano ora su frionti contrapposti.

«Coloro che restano in silenzio davanti a questo massacro sono colpevoli tanto quanto chi lo ha compiuto. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu deve riunirsi rapidamente»; il premier turco Recep Tayyip Erdogan si schiera dunque risolutamente con gli islamisti egiziani.

Al contrario, gli Emirati arabi uniti e il regno del Bahrein – piccoli ma importanti capisaldi della presenza militare e petrolifera statunitense nel Medio Oriente – dichiarano il loro sostegno all’operazione della polizia e dell’esercito egiziani contro i manifestanti al Cairo e lanciano un appello alla riconciliazione nazionale secondo la “road map” del governo ad interim.

In un comunicato pubblicato nella notte, il ministero degli Esteri emiratino ha dichiarato di “comprendere le misure sovrane prese dal governo egiziano che aveva mantenuto la massima moderazione negli ultimi tempi” e ha deplorato “l’insistenza dei gruppi politici estremisti a lanciare appelli alla violenza”.

Dal canto suo, il Bahrein ritiene che “le misure prese in Egitto per ristabilire l’ordine rispondono alla richiesta dei cittadini di essere protetti dallo Stato”.

Questi due Paesi del Golfo, insieme all’Arabia Saudita e al Kuwait, avevano accolto favorevolmente la deposizione del presidente Mohamed Morsi da parte dei militari, fornendo aiuti all’Egitto rispettivamente per 5, 4 e 3 miliardi di dollari.

Al contrario, il Qatar, principale sostenitore dei Fratelli musulmani, ha denunciato ieri con forza l’intervento delle forze di sicurezza contro i pro-Morsi.

Queste divisioni frontali mandano a pezzi tutta la strategia statunitense (e israeliana) nella regione, evidenziando l’assenza di un disegno capace di tener conto degli interessi più rilevanti in gioco (er non parlare dei palestinesi, trattati ormai come carta retorica da giocare davanti ai rispettivi popoli).

Un’analisi precisa di queste difficoltà è presente del fondo di Alberto Negri, uno dei più seri osservatori del mondo musulmano, su IlSole24Ore. Dal nostro punto di vista, ci sembra importante sottolineare come la ribellione laica dei “tamarrod” contro il governo Morsi – una rivolta anch’essa senza progetto, più volontaristica che “strategicamente” strutturata – si sia tradotta in un viatico al golpe militare. Il “desiderio” che non sa fare i conti con i rapporti di forza reali, ancora una volta, sembra aver ottenuto il contrario di quel che poetizzava…

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Perché Al Sisi non è Nasser ma questo è un (vero) colpo di stato

 

analisi di Alberto Negri

 

 

Rimuovere un dittatore è più facile che rimpiazzarlo: è la lezione di questa contro-primavera araba che in Egitto ha imboccato una svolta drammatica con l’azione decisa dai generali sradicatori degli islamici e dal loro uomo forte, Abdel Fattah Al Sisi che per la verità di somiglianze con il laico Nasser ne ha assai poche, a partire dal fatto che le donne della sua famiglia sono tutte velate, cosa che Nasser avversava, così come era contrario a ogni rinascita del Califfato. Al Sisi, come Nasser, è un feroce avversario degli islamici che non si sottomettono alle Forze Armate ma lui stesso è un musulmano rigido e conservatore che propone la sua versione militarizzata della religione.

 

I Fratelli Musulmani pagano con il sangue i loro errori, tra i quali il principale è stato quello di disperdere i grandi consensi conquistati regolarmente alle urne, inimicandosi con il loro progetto egemonico una parte consistente della popolazione che si è rivoltata invadendo piazza Tahrir. Questa però è già una fase morta e sepolta della rivoluzione egiziana.

 

Una cosa è certa: al comando in Egitto non c’è una democrazia ma un regime pretoriano e i generali, con l’appoggio delle folle di Tamarrod, hanno condotto un colpo di stato che rischia di precipitare il Paese in uno stato di conflittualità permanente, oltre che nella spirale dello stato d’emergenza e del coprifuoco che accompagnano ogni azione repressiva su larga scala.

 

Hanno detto subito una grossa e impietosa bugia alla quale hanno creduto, o mostrato di credere, i loro alleati, come il moderato El Baradei – che si è dimesso dalla vice-presidenza – e la diplomazia internazionale: che volevano lavorare per la riconciliazione nazionale. In realtà aspettavano il momento giusto per cacciare i Fratelli Musulmani, oltre che dal potere, dalle piazze e dal quadro politico del Paese.

 

Lo stesso partito salafita al Nour, che ha appoggiato l’ascesa dei militari, è alle corde: dovrà dimostrare le ragioni di questa scelta alla sua base islamica, ancora più integralista di quella dei Fratelli Musulmani. Le motivazioni tattiche, sia pure giustificabili, rischiano di naufragare nella violenza.

 

La responsabilità degli eventi è in primo luogo dei militari, anche se i Fratelli Musulmani hanno dimostrato di essere incapaci di avviare un negoziato concreto con le loro richieste fuori dalla realtà, come il ritorno senza condizioni allo stato precedente il colpo di stato.

 

Le conseguenze di questi eventi vanno ben oltre il Cairo e l’Egitto. La contro-privamavera araba sta vivendo momenti drammatici anche in Tunisia e in Libia, per non parlare della Siria, da due anni nel gorgo della guerra civile. Al Bardo di Tunisi a migliaia sono in piazza per chiedere la fine del governo di coalizione guidato dal partito islamico Ennhada, a Tripoli e Bengasi la tensione è costante. Al Qaida è in azione da tempo in Cirenaica, con il sostegno dei movimenti jihadisti, e adesso sta tentando di penetrare in Tunisia per approfittare dell’instabilità crescente. E c’è soltanto da immaginare cosa potrà accadere anche in Iraq, in Libano o in Giordania, dove i massacri dei musulmani egiziani diventeranno un altro elemento nel caos generale.

 

È in situazioni come queste che i gruppi radicali islamici avranno buon gioco a intensificare ovunque la loro propaganda basata sul martirio dei musulmani e sull’accusa ai regimi laici di essere dei miscredenti, soprattutto se il governo del Cairo non sarà in grado di riportare un ordine accettabile e di rimettere sotto controllo il Sinai, diventato in questi mesi una sorta di mini-Afghanistan ai confini con i Territori palestinesi e Israele.

 

Gli stessi stati arabi del Golfo, come Qatar e Arabia Saudita, sono in difficoltà: dopo il colpo di stato del 3 luglio scorso hanno promesso miliardi di dollari all’Egitto dei militari ma con la durezza sanguinosa di questa repressione, documentata dalle loro emittenti come la tv qatarina Al Jazera, avranno grandi difficoltà a giustificare il loro sostegno al nuovo regime.

 

I Fratelli Musulmani egiziani, benché poco amati dalle monarchie petrolifere, sono comunque la più antica e maggiore organizzazione araba dell’Islam politico ed erano arrivati al potere dopo una lunga marcia durata 80 anni. La loro cancellazione “manu militari” avrà degli effetti in tutto il Medio Oriente, così come non è escluso che gli ultimi eventi condurranno a ulteriori divisioni dentro ai partiti islamici, tra falchi e colombe, tra chi deciderà di abbracciare lotta armata e chi continuerà a credere nei metodi della democrazia.

 

In Algeria negli anni’90 i generali sradicatori ebbero la meglio sugli islamici dopo un decennio di guerriglia e terrorismo con un bilancio tragico: oltre 200mila morti e migliaia di dispersi. Ma fu una tragedia a porte chiuse: i generali isolarono il Paese da ogni influenza esterna ed eliminarono i testimoni, in Egitto oggi un’operazione di questo genere appare assai più complicata.

 

Quello che accade al Cairo mette in imbarazzo anche gli Stati Uniti e l’Europa. La mediazione americana ed europea è miseramente fallita. Washington, pur essendo il maggiore finanziatore e fornitore delle Forze armate egiziane, ha dimostrato di non essere in grado di influenzare positivamente gli eventi: in poche parole i generali sradicatori hanno tirato uno schiaffo anche alla superpotenza americana e all’Unione europea. Ma non sarà questo modesto affronto il maggiore dei problemi: l’escalation della violenza sulla Sponda Sud è appena cominciata e noi non sappiamo come rispondere.

da IlSole24Ore

 

 

 

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