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Obama chiede consenso per una “spedizione punitiva”

Il “progressista” Obama rispovera il concetto austro-ungarico di strafexpedition, ignaro forse che quell’offensiva tutto fu tranne che rapida, fulminea e indolore. 230mila morti, alla fine, contò la “battaglia degli altipiani”. Quaranta giorni di reciproca mattanza, tra il maggio e il giugno 1916.

Altri tempi, altre tecnologie di guerra, altro scarto tra i contendenti… Oggi l’unica superpotenza globale non corre il rischio di aprire un conflitto interminabile con la Siria già a pezzi per conto suo. Ma accendere un cerino davanti a un barile di polvere – il Medio Oriente ridisegnato in continuazione da improbabili “primavere arabe” e crescita esponenziale degli integralismi – non sembra una mossa intelligente. Semmai un po’ disperata, come accade spesso a chi è vagamente consapevole che i rischi dell’agire e del non agire si equivalgono, anche se non sono davvero dello stesso genere.

Un generale intelligente saprebbe riconoscere in questo “stallo della decisione” un segnale certo di crisi tattico e strategica. L’America imperiale pensa – anche attraverso Obama – che la propria forza sarà comunque sufficiente a determinare la “forzatura dell’incertezza” a proprio vantaggio. Non fanno forse così anche con la crisi economica? Ogni volta prendono a stampare dollari a volontà e la crisi degli Stati Uniti diventa un problema per il mondo, non più per gli yankee.

“Non è l’Iraq, non è l’Afghanistan. Stiamo parlando di un raid limitato, proporzionato, che è un messaggio non solo ad Assad, ma anche ad altri che potrebbero pensare di usare armi chimiche anche in futuro”.

All’Iran, in primo luogo. Inutile ricordare che le “guerre umanitarie” degli ultimi venti anni hanno lasciato un deserto attraversato da milizie tribal-confessionali al posto di paesi dittatoriali ma tutto sommato “semi-sviluppati”. E almeno laici. Inutile far notare che “la democrazia” non ha attecchito in nessun luogo, in obbedienza all’evidenza storica per cui questa forma di regolazione della vita politica nasce lì dove c’è uno sviluppo sociale, un orizzonte di progresso stabile, equilibri sociali riconosciuti dalle classi numericamente o economicamente fondamentali.

AL contrario, l’attuale medio oriente è un labirinto di alleanze saltuarie, mobili, sconfessabili da un giorno all’altro. Ogni “famiglia”, anche religiosa, è nemica di tutte le altre e divisa al proprio interno. Chiunque provi a muovere dall’esetrno questi equilibri – e un intervento militare occidentale punta dichiaratamente a indebolire il regime siriano di fronte ai “ribelli” sostenuti dai sauditie, più segretamene, da Israele – sa cosa va a toccare ma non riesce nemmeno a immaginare come si modificherà il quadro.

Azione senza progetto. Non serve neppure un generale per sentenziare che è un errore pericoloso.

Ma il dado è tratto. Le “prove” non vengono mostrate, basta credere in quello che dicono gli americani, come con Powell e la sua boccettina di menzogne. Si va, andranno.

Da soli o quasi, stavolta. Un’iperpotenza solitaria, che non ascolta più nessuno e perciò non riesce più a coagulare il consenso intorno alle proprie scelte. Nemmeno il proprio stesso “popolo”.

Un’iperpotenza “nazionalista” ed elitaria, incapace di visione e quindi di egemonia politica. Ha ancora dollari (li stampa) e cannoni. Ma le crepe sono evidenti.

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