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Siria: turchi e curdi in piazza contro l’aggressione, scontri

Il governo del liberal-islamista Erdogan non ha mancato nei giorni scorsi di esprimere il proprio disappunto per i ‘ritardi’ nella guerra contro la Siria. Il paese da anni addestra, sostiene e finanzia le milizie ribelli siriane sul proprio territorio e fornisce loro appoggio logistico e armi. E il premier Erdogan ha schierato i propri missili contro il vicino parecchi mesi fa, quando in occidente l’opzione militare sembrava cosa ancora lontana. Poi, dopo l’annuncio da parte di Obama sull’inizio del countdown, il governo di Ankara aveva fatto sapere di essere pronto a partecipare, seppur non in prima fila, anche senza la copertura legale dell’Onu. Ma poi il parlamento britannico ha votato ‘no’ e umiliato Cameron, il presidente francese ha incassato un no trasversale anche dai partiti che lo sostengono e Obama ha rimandato tutto investendo della decisione un Congresso che appare poco convinto, se non riottoso. Facendo arrabbiare il ‘sultano’. Oggi il suo portavoce, Bulent Arinc, ha chiesto a Washington una ‘risposta urgente’ in merito. ”E’ necessaria una risposta urgente alla situazione umanitaria, per punire il regime siriano come un assassino” ha detto Arinc, che dimostra di aver ben appreso il linguaggio bellico-umanitario occidentale.

Ma l’escalation militare contro la Siria rischia di rinfocolare le proteste in Turchia esplose in forme inedite dalla fine di maggio e trasformatesi in alcuni casi in un moto popolare e di massa contro le politiche del governo dell’Akp. Già nei mesi scorsi non erano mancate le grandi manifestazioni, a Istanbul e Ankara ma soprattutto ad Antiochia e nelle altre città del sud del paese, contrarie all’impegno bellico della Turchia e al sostegno del regime di Erdogan ai ribelli e ai mercenari islamisti. Addirittura alcuni soldati stranieri inviati dalla Nato ad installare i missili Patriot al confine con la Siria erano stati aggrediti da manifestanti antimperialisti.

L’ultimo finesettimana ha visto scendere in piazza in tutta la Turchia parecchie decine di migliaia di persone contro l’imminente aggressione militare e contro il governo, con scontri sia a Istanbul sia a Van. In molti casi è stato il Partito della democrazia e della pace (Bdp) espressione delle comunità curde, con l’appoggio dai partiti della sinistra turca e delle organizzazioni pacifiste e laiciste, a prendere l’iniziativa e a organizzare le proteste. Non a caso i cortei più partecipati sono stati quelli di Diyarbakir, la più importante città curda della Turchia, Van e Istanbul. Nella metropoli sul Bosforo i manifestanti si sono dati appuntamento in diversi punti della città creando una catena umana per formare un grande simbolo della pace; il giorno precedente decine di punti nel centro della città sono stati dipinti dagli attivisti con i colori dell’arcobaleno, uno dei simboli internazionali del movimento contro la guerra.

Uno dei concentramenti era a piazza Taksim ma le forze dell’ordine, come di consueto, hanno impedito il passaggio ai manifestanti facendo uso di gas lacrimogeni e idranti e chiudendo al pubblico il parco Gezi. Sempre a Istanbul, ma nel quartiere di Kadikoy sulla sponda asiatica, sono scese in piazza diecimila persone, rispondendo all’appello del  BDP, dell’Associazione per i Diritti Umani (IHD), dei sindacati di sinistra e di altri componenti del Congresso Democratico dei Popoli (HDK).

Polizia e manifestanti si sono invece scontrati durante la notte a Van nell’est del paese; a Diyarbakir più di 40 mila persone si sono date appuntamento in piazza Istasyon per protestare contro l’intervento militare in Siria, ma anche per esprimere solidarietà al Partito dell’unione democratica (Pyd), il movimento gemello del Pkk che controlla dallo scorso luglio il nord-est della Siria a maggioranza curda e che subisce le aggressioni delle milizie jihadiste sunnite sostenute da Ankara. Durante il grande corteo è intervenuta anche la co-segretaria del Pyd, Asya Abdullah. Manifestazioni e catene umane contro l’aggressione alla Siria si sono svolte anche ad Adana, Antiochia, Reyhanli, addirittura nelle piccole isole nel Mar di Marmara.

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Ma il no all’interventismo di Erdogan in Medio Oriente è solo una delle ragioni che sta spingendo i cittadini turchi di nuovo in piazza e le iniziative del governo per prevenire nuove manifestazioni in un autunno che, sulla scia delle manifestazioni di Occupy Gezi, si preannuncia caldo, non sembrano sortire gli effetti desiderati. Da inizio campionato i tifosi scandiscono slogan come “Taksim ovunque, resistenza ovunque” al 34esimo minuto delle partite nonostante le minacce del ministro degli interni Guler, che ad inizio agosto aveva tuonato: “non saranno tollerati slogan a sfondo ideologico e politico”. Inoltre gli studenti dell’Odtu di Ankara – l’Università tecnica del Medio Oriente – si sono già accampati nel loro campus per bloccare il cantiere di un’autostrada destinata ad attraversare la foresta che circonda l’università. Per prevenire manifestazioni di questo tipo in altri istituti universitari Guler la scorsa settimana ha emesso una circolare nella quale invita prefetti e accademici ad alzare la guardia affinché non si verifichino contestazioni a esponenti del governo o parlamentari in visita negli edifici universitari. Preoccupato che eventuali nuove manifestazioni possano influenzare negativamente il comitato olimpico che deciderà nel fine settimana se sarà Tokyo, Madrid o Istanbul la città che ospiterà le Olimpiadi del 2020 e il risultato dell’Akp alle elezioni amministrative del marzo 2014 Erdogan è tornato a scagliarsi contro le opposizioni di sinistra e laiciste. “Il futuro della Turchia sarà determinato solo dalla gente e dalle urne e non da coloro che fanno terrorismo per le strade, né dai mercati, né dai media né dai social media” ha detto il primo ministro venerdì durante un evento pubblico ad Ankara. “Nessuno ha parlatodelle centinaia di poliziotti feriti, che sono intervenuti con attenzione a ogni tipo di vandalismo e violenza” ha aggiunto Erdogan che ha poi reiterato la sua visione complotti sta contro le “lobby dei tassi d’interesse” affermando che “l’occidente non vuole una Turchia sviluppata dal punto di vista economico”.

 

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