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Il PKK interrompe il ritiro dei guerriglieri dal Kurdistan turco

Nuova grana per il governo di Recep Tayyip Erdogan e nuovo elemento di tensione in Medio Oriente, conseguenza delle politiche espansioniste del governo di Ankara da due anni in prima fila nella destabilizzazione della Siria.

Dopo mesi di avvertimenti e denunce inascoltate, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan ha annunciato di aver interrotto il ritiro dei propri guerriglieri dai territori del Kurdistan settentrionale – sotto controllo turco – in reazione alla paralisi del negoziato iniziato lo scorso marzo. Una paralisi che il movimento di resistenza curdo addebita interamente al governo di Ankara, che negli ultimi mesi non ha realizzato neanche uno dei passi annunciati e promessi al momento dell’avvio delle trattative. Non solo il leader curdo Abdullah Ocalan non è stato liberato e non gli sono state migliorate le condizioni di carcerazione dura che subisce ormai da più di un decennio nell’isola prigione di Imrali. Ma neanche sul fronte culturale Erdogan ha realizzato nessun passo nella direzione del riconoscimento dei diritti linguistici di milioni di curdi considerati da sempre un corpo estraneo da assimilare, anche con l’uso della forza. Nessun segnale sulla liberazione delle migliaia di prigionieri politici curdi è stato lanciato dal governo dell’Akp, neanche per coloro che sono finiti in carcere per motivi di opinione e sono estranei alla guerriglia come giornalisti, esponenti politici, sindaci, intellettuali, giovanissimi attivisti delle organizzazioni urbane del movimento di resistenza curdo. Negli ultimi mesi il governo turco ha al contrario accelerato i propri piani di militarizzazione dei territori dai quali i guerriglieri del Pkk avevano cominciato a ritirarsi, lanciando un piano di costruzione di caserme e avamposti militari. Nelle ultime settimane inoltre Ankara ha lanciato un programma di dispiegamento nel Kurdistan settentrionale di altre migliaia di cosiddetti ‘guardiani dei villaggi’, cioè di curdi collaborazionisti che percepiscono uno stipendio dal governo turco in cambio del loro sostegno alla repressione del movimento nazionale curdo e di assimilazione culturale. La resistenza curda aveva chiesto che questo corpo di collaborazionisti fosse smobilitato ma al contrario Ankara ha elevato il loro numero ad almeno 46 mila.

 

“Anche se interrompiamo il ritiro, manteniamo il cessate il fuoco per dare l’opportunità di riprendere il processo di pace” ha annunciato in un comunicato l’Unione delle Comunità Curde (KCK), che riunisce diverse organizzazioni della resistenza politica e militare curda. Già la scorsa settimana il comandante generale del PKK, Cemil Bayik, aveva parlato di una sospensione del ritiro iniziato nel mese di maggio in mancanza di risposte concrete da parte di Ankara. Nelle ultime settimane sono aumentati i contatti tra movimenti curdi delle varie sezioni del Kurdistan in Turchia, Siria, Iraq e Iran, in vista di una imminente aggressione militare occidentale contro la Siria che potrebbe coprire un intervento dell’esercito di Ankara contro la resistenza curda.

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