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Vent’anni da Oslo: Palestina al palo

Intervista di Michele Giorgio ad Abu Alaa, ex premier palestinese. La stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, una promessa sempre calpestata.

Sembra ieri e invece sono passati già venti anni dalla firma, il 13 settembre 1993 alla Casa Bianca, della “Dichiarazione di Principi”, primo atto degli Accordi tra Israele e Olp concepiti in segreto qualche mese prima ad Oslo. Salutati, a quel tempo, come la «soluzione» del conflitto israelo-palestinese, quelle intese non sono mai arrivate allo sbocco annunciato, all’accordo definitivo. E ora complicano e non poco la vita dei palestinesi sotto occupazione israeliana.

Non se ne parla nelle strade ma solo in dibattiti e conferenze. Di chi è la colpa del fallimento? La pace di Oslo è stata solo un (pericoloso) miraggio? Esiste ancora un futuro per questi accordi? Sono solo alcuni degli interrogativi di questo ventesimo anniversario. Noi li abbiamo posti all’ex primo ministro palestinese Ahmed Qrea (Abu Alaa) uno dei principali protagonisti degli Accordi del 1993.

Oggi a venti anni di distanza dalla stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si festeggia un compleanno o si partecipa a un rito funebre?

Certo noi palestinesi non abbiamo motivi per festeggiare. Sono molto dispiaciuto che sia andata a finire così. Soprattutto se penso che gli Accordi di Oslo erano provvisori e che, dopo cinque anni, avrebbero dovuto cedere la strada a un accordo definitivo e, quindi, alla creazione di uno Stato palestinese sovrano accanto a Israele. Dopo venti anni ci ritroviamo nelle stesse situazioni, con gli stessi problemi persino più gravi e con la popolazione palestinese che vive con profonda frustrazione la vita che deve affrontare ogni giorno.

Yair Hirschfeld, teorico israeliano degli Accordi di Oslo, dice che i palestinesi puntano l’indice contro Israele, piuttosto dovrebbero riconoscere i loro errori.

Replico senza esitazioni: la colpa dell’insuccesso è di Israele. Guardiamo alla realtà. Israele era ed è la potenza occupante nei Territori palestinesi e può sbloccare tutto applicando gli accordi passati e quelli possibili del futuro. Sino a oggi però ha rispettato ben poco dei suoi impegni. Se si esclude il periodo (dei due premier laburisti) Yitzhak Rabin e Shimon Peres (1993-1996, quando Israele ha ritirato le sue truppe dalle principali città palestinesi della Cisgiordania e parzialmente da Gaza, ndr), pochissimo è cambiato sul terreno. Dopo Rabin e Peres è venuto Bibi I, il primo governo del premier israeliano Netanyahu (che aveva osteggiato la firma della pace di Oslo, ndr) che ha paralizzato l’applicazione delle intese e rilanciato la colonizzazione delle terre del futuro Stato palestinese.
Tutto questo mentre noi avevamo compiuto un passo eccezionale: il pieno riconoscimento palestinese dello Stato di Israele e di un compromesso territoriale sulla Palestina storica. Facemmo quel passo in nome della pace tra i due popoli. In cambio Netanyahu ordinò la costruzione di nuove colonie. Il resto sapete come è andata. Falliti i colloqui di Camp David (luglio 2000) scoppiò la seconda Intifada, il premier israeliano Sharon tenne il presidente Arafat confinato nel suo ufficio (la Muqata, a Ramallah) fino alla morte (novembre 2004).
Con il nuovo premier di Israele Ehud Olmert abbiamo tenuto colloqui di rilievo ma che non sono giunti alla fine. Quindi è arrivato Bibi II e ora Bibi III. E vent’anni dopo siamo ancora fermi al palo di partenza.

Il percorso di Oslo però è segnato dalle polemiche, talvolta dallo sdegno della popolazione palestinese verso il modo di governare dell’Autorità nazionale palestinese, l’Anp nata nel 1994. Le forze politiche di opposizione affermano che l’Anp svolge una funzione che, di fatto, consolida più che rimuovere l’occupazione. Ci sono tante critiche alla cooperazione di sicurezza tra Anp e Israele.

Quando si negoziò Oslo non si aveva in mente di cucire un vestito su misura per una bella ragazza ma, partendo da intese temporanee, di arrivare a un accordo definitivo con Israele che garantisse ai palestinesi la libertà e la piena indipendenza. La realizzazione delle nostre aspirazioni era prevista dopo cinque anni, non durante il periodo transitorio.

Però quelle intese transitorie durano da venti anni, con i risultati che sappiamo.

Il mancato raggiungimento dell’obiettivo finale non è una responsabilità dell’Olp o dell’Anp, ma di Israele. Nonostante il coinvolgimento degli Stati uniti, dell’Europa, dell’Onu, di mediatori, inviati, Piano Mitchell, Road Map e così via non è cambiato nulla. Non per colpa nostra ma di Israele.

Ecco, gli Stati uniti. A distanza di venti anni potete ancora considerare la mediazione di Washington imparziale e onesta?

A mio avviso non è una questione di mediazione onesta o disonesta. Mi aspetto che gli Stati Uniti facciano il possibile per far rispettare le risoluzioni internazionali, le intese che loro stessi hanno sottoscritto. Quindi che usassero la loro grande influenza per spingere le cose in avanti, sui binari della legalità. Gli americani dicono che costruire colonie israeliane (nei Territori palestinesi, ndr) è illegale, significa che queste colonie devono essere smantellate. Dalle dichiarazioni però non si passa ai fatti.

Vent’anni di negoziati non sono bastati ad arrivare alla soluzione dei due Stati, Israele e Palestina. All’inizio dell’estate sono ripartire le trattative ma a quella soluzione di compromesso ormai credono in pochi. Cosa resta, lo Stato unico per ebrei e palestinesi?

Quella dello Stato unico è una possibilità ma guardiamo in faccia alla realtà, Israele la respinge e questa è anche la posizione della comunità internazionale. Non è un’opzione credibile. Perciò puntiamo a concretizzare la soluzione possibile, quella dei due Stati. In ogni caso dev’essere chiaro un punto. La mia generazione forse ha fallito ma questo non significa che i palestinesi hanno perduto i loro diritti. Israele non ha voluto trovare un accordo con noi ma deve sapere che la prossima generazione palestinese non rinuncerà ai suoi diritti legittimi. I palestinesi non cesseranno mai di reclamare libertà e indipendenza.

da il manifesto

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