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Siria: disgelo all’Onu, Obama rincula

Dopo settimane di estenuanti trattative e dopo che i motori dei bombardieri diretti su Damasco erano già stati accesi, Russia e Stati Uniti sembrano essere giunti ieri all’Onu ad un accordo su un testo che prevede la distruzione dell’arsenale chimico in possesso del regime di Bashar al Assad. 

La bozza di risoluzione prevede la possibilità per il Consiglio di Sicurezza di imporre sanzioni contro il governo di Assad se il piano di disarmo chimico non dovesse essere rispettato ma non prevede l’uso della forza – se non dopo una nuova esplicita risoluzione dell’Onu al quale la Russia potrebbe sempre apporre il veto – e non attribuisce chiare responsabilità nè al governo né ai ribelli per la presunta strage di Ghouta del 21 agosto scorso. Il testo non solo non fa riferimento al capitolo 7 della Carta Onu – quello sull’uso della forza – ma non precisa neanche quali saranno le eventuali misure punitive, né prevede automatismi.

Una chiara sconfitta di Washington ma anche di Parigi e Londra, che solo poche settimane avevano dichiarato al mondo l’inizio dell’aggressione militare contro Damasco proprio sulla base dell’utilizzo delle armi chimiche da parte dell’esercito governativo siriano, che però gli ispettori dell’Onu non sono stati in grado di dimostrare.
Ma non è certo l’ambiguità delle prove ad aver bloccato Obama e soci, bensì il fatto che per la prima volta negli ultimi due decenni alcune grandi potenze – in particolare Russia e Cina – si sono messe di traverso rispetto ai piani bellicisti di Washington, consci che la distruzione della Siria come stato nazionale sarebbe stato il prologo dell’assalto all’Iran e di un ulteriore avvicinamento ai confini di Mosca e Pechino. Anche le opinioni pubbliche statunitensi ed europee non hanno affatto sostenuto lo sforzo bellico, nonostante due anni di martellante propaganda contro Assad che, dopo Saddam Hussein, Milosevic e Gheddafi, i media mainstream hanno provato a descrivere come un ‘nuovo Hitler’ ma senza riuscirci. D’altronde appare sempre più chiaro, anche ai settori più informati dell’opinione pubblica, il ruolo di potenze regionali non certo democratiche come Qatar, Arabia Saudita e Turchia  nella destabilizzazione della Siria. Oltre che la crescente presenza sul terreno di migliaia di combattenti inquadrati in formazioni jihadiste quando non direttamente legate ad Al Qaeda, il che rende evidente a molti – ad esempio al Vaticano – che la caduta del regime alauita a Damasco lascerebbe spazio ad una dittatura settaria sunnita e fondamentalista islamica, fonte di ulteriori conflitti e instabilità per tutto il Medio Oriente.
Lo schieramento di Teheran, Mosca e Pechino a protezione della Siria ha convinto Obama a rinculare, e lo storico discorso conciliante del leader iraniano Rohani all’assemblea dell’Onu, dopo l’iniziativa diplomatica di Putin sul controllo internazionale delle armi chimiche di Damasco, ha dato un appiglio all’amministrazione statunitense per il raggiungimento di un accordo sancito dalla bozza di risoluzione i cui contenuti sono oggi anticipati dai quotidiani e che dovrebbe essere votata, all’unanimità, questa sera dal Consiglio di Sicurezza.
Nel frattempo la guerra sul terreno, in Siria, continua con una maggiore recrudescenza. La parte consistente di popolazione siriana che sostiene il governo o lo tollera perché lo considera in questo momento il male minore tira un sospiro di sollievo, mentre le truppe tentano di riprendere il controllo di alcune aree strategiche attente a non fornire a Washington scuse per dare inizio all’aggressione; l’amministrazione Obama incassa per ora un risultato per lo meno simbolico, cioè aver ‘obbligato’ Assad a disarmare quantomeno sul fronte degli arsenali chimici; Mosca e Cina hanno dimostrato per la prima volta che la loro contrarietà ai disegni espansionisti USA non è più soltanto simbolica. Gli unici a scalpitare sono i ribelli  nei confronti dei quali le potenze che li sostengono hanno aumentato i flussi di armi e denaro ma che si sentono defraudati della possibilità di dare una svolta militare alla guerra civile attraverso un intervento diretto degli Usa che per ora si allontana. Negli ultimi giorni i combattimenti tra i ribelli che si riconoscono nel Consiglio Nazionale Siriano e quelli delle formazioni jihadiste si sono intensificati, il che ovviamente toglie non poca credibilità ad ogni ipotesi lineare di ‘regime change’ a Damasco.

Il momentaneo stop ai piani di Washington non deve però far calare l’allarme sulla possibile deflagrazione di un conflitto su larga scala in Medio Oriente.

Per la prima volta in venti anni gli Stati Uniti hanno dovuto ammettere la propria debolezza di fronte ad un mondo in cui gli attori che contendono l’egemonia all’ex superpotenza unica sono sempre più numerosi e forti. Ma paradossalmente è proprio la evidente debolezza di una superpotenza messa di fronte al proprio declino a renderla più irresponsabile e disperata.

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