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Israele-Palestina. “Kerry Tour Investments”

Circa una settimana dopo avere lasciato la Palestina occupata,  il segretario di Stato Usa John Kerry, vi è ritornato per calmare la tempesta sollevatasi dopo il suo ultimo tour. Infatti i colloqui con le parti israeliana e palestinese hanno suscitato una tempesta di critiche e reazioni in entrambe le parti: sotto accusa sono finite le proposte presentate dal consigliere per la sicurezza, il generale John Allen, che si basano sulla filosofia di una soluzione provvisoria in grado di assicurare la “sicurezza” tra le due parti.
Una sicurezza però sventolata solo a parole. Nella realtà infatti le proposte di Allen soddisfano esclusivamente le richieste espansionistiche e la sicurezza di Israele nei Territori Palestinesi Occupati. Il tutto al fine di garantire la presenza delle forze di occupazione israeliane nella Valle del Giordano e quindi al confine con la Giordania e in altre aree all’interno della Cisgiordania, con la libertà per le forze armate israeliane di muoversi a loro piacimento, potendo giustificare tutto in nome delle esigenze di sicurezza di Israele! Tutto questo senza tener conto dei legittime diritti dei palestinesi e delle loro richieste di sovranità sul territorio del futuro Stato di Palestina, e senza alcun riguardo per i principi di legalità internazionale e di quell’assioma “terra in cambio di pace” che fu la base del processo di pace  iniziato con la conferenza di Madrid nel mese di ottobre del 1991.
Ma non possiamo meravigliarci più di tanto, visto che d’altra parte in questi anni sono stati concessi dei veri e propri premi all’occupazione, invece di dar seguito a quanto detto dalla legalità internazionale in decine di risoluzioni delle Nazioni Unite. Sì, veri e propri premi: all’espansione e alla permanenza degli insediamenti a scapito della terra palestinese; garanzie sotto il pretesto della sicurezza.  Tutto questo in qualsiasi fase della occupazione dei territori palestinesi e arabi e senza mai una presa di posizione che si avvicini al diritto internazionale.
Queste semplici ragioni hanno fatto fallire alla partenza il tentativo di rilanciare le trattative da parte di Kerry. Queste idee, infatti, di pura fabbricazione israelo-americana, sono stati respinti in modo chiaro e determinato sia dalla leadership che dal popolo palestinese. Anzi, sono state considerate il colpo di grazia sparato al cuore del processo di pace. Un fallimento totale che ha smascherato il bluf, semmai qualcuno ci avesse creduto, di un John Kerry in grado di avere un ruolo al di sopra delle parti. Ma non basta. Questa ennesima conferma avrà delle conseguenze facilmente pronosticabili: una nuova Intifada palestinese e nuove cicli di violenze tra le due parti. Questo per quanto riguarda il campo palestinese  (ma malumori e mugugni sono arrivati anche dal settore israeliano) nonostante le idee messe in campo da Kerry siano assolutamente favorevoli ad Israele.
Ma il clima di ottimismo voluto dal segretario di Stato di Obama, diffuso dopo il suo primo tour,  ha messo in allarme una parte consistente di quell’apparato israeliano al seguito di Netanyahu. Un esercito, questo, che si è precipitato a dissipare l’ottimismo propugnato a piene mani dall’amministrazione statunitense, confermando i termini della posizione di Israele per il raggiungimento di qualsiasi accordo di pace: il riconoscimento da parte dei palestinesi dell’ebraicità dello stato di Israele, la  rinuncia al diritto al ritorno,  l’accettazione che  Gerusalemme tutta diventi capitale di Israele e, appunto, la permanenza delle forze armate israeliane nella parte palestinese della Valle del Giordano, in nome della sempre citata sicurezza di Israele e degli israeliani.
E’ evidente a tutti che si tratta di condizioni impossibili e inaccettabili, che rivelano la portata politica del rifiuto di Israele ad accettare qualsiasi forma di compromesso con i palestinesi. Un compromesso che può basarsi unicamente sul ritiro dai territori occupati e sull’accettazione della legalità internazionale.
L’interrogativo che oggi è davanti a noi è: che  cosa ha in mano John Kerry oggi per calmare la tempesta sollevata dai sui viaggi nella regione mediorientale? Cosa ha spinto la portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti a dichiarare che non si cerca una soluzione provvisoria, bensì una soluzione e un accordo definitivo? Il sospetto è che si tratti di una storia vecchia, già vista decine di volte in questi decenni. Ma forse c’è di più. Innanzitutto l’esigenza, dopo il fallimento di quelle che dovevano essere le “primavere arabe”, di ricucire con i popoli di quella regione, partendo dal ridimensionare le giuste preoccupazioni palestinesi! Che cosa  dirà Kerry ai palestinesi circa il loro futuro, il futuro dei territori occupati e gli insediamenti, sui prigionieri e sul diritto al ritorno , e infine su Gerusalemme e i confini di quello che dovrebbe essere il futuro stato di Palestina? Non credo che siano in vista novità positive, più facile invece che gli Usa vogliano ripetere un vecchio copione, offrendo ai palestinesi una ennesima “tangente” foriera di corruzione economica in cambio del loro silenzio. Con la speranza in questo modo di mettere a tacere anche la loro  rabbia e di guadagnare più tempo, al fine di nascondere l’impotenza dagli Stati Uniti ad imporre, ma soprattutto ad elaborare, una soluzione  accettabile dalle due parti. Se questo non dovesse raggiungere gli effetti sperati, c’è sempre la seconda mossa: ovvero  minacciare nuove sanzioni nei confronti dell’Autorità palestinese, per piegarne la resistenza e minare il consenso della popolazione. Più difficile è invece capire quali saranno invece i messaggi che saranno inviati a Tel Aviv da Obama. Promesse di aiuti economici? Nuovi sistemi di sicurezza? Armi? Oppure meno probabili minacce di rivedere le compatibilità e gli interessi Usa in Medio Oriente?
Personalmente non credo che  Kerry sarà in grado di soddisfare le ingordigie di Israele e dei suoi governi sempre più caratterizzati da una visione razzista e aggressiva. D’altra parte nulla fa pensare che Kerry voglia rivedere antiche posizioni Usa per confrontarsi con le variabili in corso nella regione e nel mondo, in primo luogo quella del nazionalismo palestinese, arrivato ad un punto di non ritorno: nessuno è oggi disposto a rinunciare alla creazione di uno Stato indipendente, con una piena sovranità, sui confini del 4 giugno 1967, oltre naturalmente alla liberazione di tutti i prigionieri politici, allo smantellamento degli insediamenti, al completo ritiro delle forze israeliane dai territori occupati, al rispetto delle risoluzione sul problema dei rifugiati nel rispetto della legalità internazionale, e a Gerusalemme Est capitale di uno Stato palestinese.
Una situazione pericolosa che per l’ennesima volta mette di fronte una possibile pace fondata sulla legalità e il diritto internazionale al rischio di nuove violenze e distruzioni. Al di fuori delle parole e dei teatrini Kerry deve rispondere ad una precisa domanda: Kerry e l’amministrazione americana saranno in grado di uscire  dall’occhio del ciclone, esercitando una forte pressioni sui dirigenti dell’entità sionista? Il tempo, come la pazienza del popolo di Palestina, sta scadendo. Se non ci saranno reali prospetive di pace resterà una sola strada, quella della resistenza.
 

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