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Afghanistan 2014, un rapporto e il supporto ministeriale

Il network di Ong che fa capo ad Afgana ha presentato al nostro Ministero degli Affari Esteri un report sul martoriato Paese asiatico. Materia dell’inchiesta la dibattuta strategia del ritiro, i negoziati per la riconciliazione nazionale, le prossime elezioni presidenziali, una transizione densa d’incertezze e molteplici interessi.

Lodato a prescindere, dalla rappresentanza del nostro Ministero degli Affari Esteri e dall’onorevole Mogherini nel corso della presentazione in una sala della Farnesina, il lavoro di ricerca di Giuliano Battiston: Aspettando il 2014, la società civile afghana su pace, giustizia e riconciliazioni, potrebbe riservare alcune sorprese all’idea del Paese asiatico che circola negli ambienti istituzionali italiani. Vediamo perché.

Battiston, finanziato dalla rete di ong Afgana tramite il ministero, nel testare in cinque mesi di lavoro centoventi fra uomini e donne (studenti, insegnanti, funzionari, operatori ong, molti giornalisti, qualche leader religioso, alcuni politici, una manciata di attivisti i più anonimi per ragioni personali) delle aree urbane di Balkh, Bamiyan, Farah, Faryab, Herat, Kabul, Nangarhar ha stilato un rapporto diviso su quattro punti.

Il primo, le ragioni del conflitto, lascia agli intervistati l’uso del condizionale nel determinare la diffusa convinzione che la guerra della missione Isaf sia alimentata da paesi stranieri. Nel gioco geopolitico in atto l’Afghanistan risulterebbe il soggetto più vulnerabile se confrontato con gli ingombranti vicini pakistano e iraniano. Sul ruolo degli Stati Uniti convergono considerazioni negative per i suoi palesi intenti geostrategici ed economici. I fattori interni che contribuiscono all’instabilità sono riassunti nei quattro aggettivi che definiscono il governo: illegittimo, impermeabile, incapace, corrotto. E in aggiunta portatore d’ingiustizia sociale e di assenza di giustizia penale.

Su pace, negoziato e riconciliazione la premessa ruota attorno all’inefficacia dell’intervento militare (solo una minoranza perora il proseguimento di questa soluzione) e al bisogno di seguire la via del dialogo politico per il quale si lamenta l’assenza di figure femminili. Gli intervistati sottolineano la strumentalizzazione del piano operato da governo e insorti, manifestano basse aspettative verso i Taliban considerati inaffidabili oltre che eterogenei. Sul loro possibile inserimento nel futuro establishment scatta la distinzione fra talebani di “casa” e quelli “stranieri”, solo contro quest’ultimi sorge il sospetto che possano essere eterodiretti. Gli afghani interpellati non vorrebbero al governo i leader che hanno personali responsabilità sull’uccisione di civili. Viene poi fatta una distinzione fra “pace politica” e “pace sociale”, col suggerimento d’intraprendere un approccio politico-diplomatico per perseguire la prima e l’uso del dialogo comunitario per la seconda.

Il tema della giustizia ha un’inquietante premessa: nessuno nel Paese può aiutare i cittadini a ottenerla perché chi in passato s’è macchiato di crimini gravi oggi detiene il comando. Inoltre il potere giuridico, inefficiente e corrotto, sarebbe subalterno a quello politico. Un circolo vizioso che non è stato spezzato e per il quale il governo Karzai appare illegittimo agli occhi dei più. Per qualcuno l’amnistia può rappresentare un mezzo per il domani afghano, ma la maggioranza degli intervistati contesta quest’idea, sostenendo che una riconciliazione può attuarsi solo col riconoscimento della verità storica. In molti ribadiscono l’intento di negare alle istituzioni il diritto di poter decidere al posto dei familiari delle vittime delle varie guerre che hanno seminato lutti.

Pol-i-Sukhti

La transizione e il post 2014 sono contrassegnati dal sentimento d’incertezza per la fragilità politico-amministrativa, sociale ed economica della nazione. Le voci ascoltate richiedono un ulteriore impegno della comunità internazionale perché considerano insufficiente quanto realizzato finora. Un sostegno che dovrebbe intendersi come collaborazione e non come interferenza o imposizione di pratiche e modelli elaborati altrove. Esistono però vari timori. Quello d’un rinnovato conflitto interno è il più diffuso, accanto ai citati pericoli esterni cui s’aggiungono l’inesperienza delle forze di sicurezza afghane e la paura che il ritiro delle truppe Isaf comporti anche una dismissione degli aiuti economici. L’ultima ansia riguarda le negoziazioni Obama-Karzai sul Bilateral Security Agreement, attorno al quale si dibatte fra chi accetterebbe la presenza di basi militari statunitensi e chi le addita quale fonte di permanente instabilità.

Introducendo la presentazione del rapporto Francesco Fransoni, inviato speciale del Mae per Afghanistan e Pakistan, ha insistito nel considerare l’odierno Afghanistan come un altro Paese rispetto all’avvìo dell’Enduring Freedom. Ha ricordato la vivacità dei media locali, l’aumento del 40% della scolarizzazione, evidenziando la crescita di un ceto borghese che s’accultura. Ha posto fiducia nell’establishment afghano e nelle elezioni presidenziali di primavera. Crede fermamente nella ratifica del trattato BSA pena il black-out dei piani previsti dalle assisi internazionali di Tokio e Chicago. Ha ricordato come oggi la conflittualità abbia un basso impatto sul territorio. Uno dei pochi punti oscuri mostrati è il volto di narcostato assunto dalla nazione.

L’ambasciatore può meditare attorno al fatto che la crescita esponenziale verso i picchi attuali della produzione (ma anche raffinazione e traffico) del papavero da oppio ha seguìto, anno dopo anno, i tempi dell’occupazione Isaf. Per amore di verità ci permettiamo di precisare: le decine di testate, gli oltre trenta canali televisivi presenti nel Paese rivestono un ruolo esclusivamente acritico e filo governativo. Si riscontrano: diminuzione del numero delle parlamentari dal 30% al 20%, scarsa partecipazione di donne alla forza lavoro (15.7%) che precipitano nell’amministrazione pubblica dal 31% al 18% negli ultimi cinque anni. E solo una ragazza su cinque, fra i 15 e i 24 anni, accede all’istruzione superiore.

L’onorevole Federica Mogherini, alla Camera dall’aprile 2008 con l’occhio rivolto a politica estera, cooperazione, Forze Armate e altro, intervenendo ha ammesso di non aver avuto occasioni d’incontro con l’Afghanistan civile. I suoi contatti passano per la commissione parlamentare Nato, che in un recente viaggio l’ha condotta in luoghi non frequentati né dagli afghani della strada né dagli intervistati nel documento. Mogherini s’è soffermata su un pilastro del nuovo Afghanistan che nascerebbe dalle prossime elezioni presidenziali. Si terrano? s’è chiesta, forse allarmata dal lento procedere della macchina organizzativa. In lei prevalgono fiducia e la speranza d’una trasparenza dei risultati. Sui protagonisti del processo negoziale l’onorevole si pone un problema di real politik: oltre alla “riservatezza” di certi colloqui gli attori dovranno essere riconosciuti dalla società e dalla società civile. Centrali anche la questione della sovranità da restituire alla popolazione e delle nuove generazioni che dovrebbero guidare la macchina statale pubblica e privata.

Qualche dubbio lo insinuiamo anche in questo caso. Le presidenziali del 2009 furono vinte da Karzai grazie a gravisissimi brogli, lamentati non solo dagli altri candidati Abdullah e Bashardost, ma dalla schiera degli osservatori internazionali presenti nei seggi. Di quelle elezioni mancano dati certi, solo la Nato affermò che avevano votato 14 milioni di elettori. Alcuni degli attuali candidati alla presidenza si chiamano Sayyaf, Khan oppure Khalili e Fahim. E’ quel passato che non passa temuto dai testimoni del report. Questi signori della guerra e del business, che rendono impossibile la restituzione d’una sovranità nazionale, sono alcuni attori che dovrebbero essere riconosciuti dalla società civile… Le nuove generazioni rappresentano senz’altro una risorsa, se riescono a sopravvive a una mortalità ancora elevata e a una povertà di ritorno: sei milioni di bambini vagano in strada chiedendo l’elemosina. Durante gli anni della “missione Isaf” sono aumentati. Come ovunque gli strati sociali più bassi non sono garantiti, mentre la borghesia antica e acquisita prepara nelle università occidentali la nuova classe dirigente. Se non proprio i nuovi Karzai, gli Ashraf Ghani del futuro. Non ci pare un buon viatico per una vera democrazia.

articolo pubblicato su Fanpage

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