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Turchia. La guerra tra Erdogan e giudici non ferma la repressione

Più si sente assediato e contestato, più il premier liberal-islamista turco Erdogan accentua e rafforza la caccia ai suoi nemici, interni ed esterni al suo partito. Oggi il ‘sultano’ ha fatto sapere che il governo turco non ha in programma nessuna amnistia nei confronti degli oltre 200 tra funzionari, esponenti politici e militari condannati nei mesi scorsi per complotto contro l’esecutivo. “Nessuno si attenda un’amnistia generale: non é prevista” ha dichiarato il suo vice Bulent Arinc ai media locali. 

Nei giorni scorsi lo Stato Maggiore dell’esercito turco aveva ufficialmente chiesto di riprocessare di nuovo centinaia di ufficiali – generali compresi – condannati perché accusati di far parte della rete Ergenekon a capo di un tentativo di colpo di stato, e di garantire loro un processo equo e la difesa dei loro diritti. Lo scorso 27 dicembre i generali di Ankara avevano presentato una denuncia penale alla procura della capitale contro la condanna per cospirazione di centinaia di alti gradi delle forze armate, accusando i tribunali e il governo di aver manipolato e addirittura fabbricato prove false per poter togliere di mezzo i competitori del premier e dell’Akp – Partito della Giustizia e dello Sviluppo – all’interno di una delle istituzioni cardine della Turchia. Nell’agosto scorso infatti una corte speciale aveva emesso dure condanne nei confronti di centinaia tra militari, politici dell’opposizione nazionalista e giornalisti con l’accusa di aver tentato di rovesciare il governo Erdogan. Tra i condannati anche l’ex generale Basbug, 70 anni, fino al 2010 capo di Stato maggiore, al quale era stato attribuito un ruolo di primo piano nell’organizzazione ultranazionalista ed anti islamica. Nel 2012 altri 300 militari, anche in quel caso generali compresi, erano stati condannati a pene dai 13 ai 20 anni di carcere per un altro presunto tentativo di colpo di stato risalente però al 2003, all’inizio dell’ascesa al potere di Recep Tayyip Erdogan.
Che l’esercito turco – autore di ben 4 colpi di stato negli ultimi decenni – e gli ambienti ultranazionalisti e laicisti cercassero il modo di far fuori Erdogan o di limitarne il potere è risaputo e scontato, ma è anche evidente che l’Akp ha utilizzato i processi contro l’esercito e alcuni settori dell’ex establichment caduto in disgrazia dopo l’ascesa al potere degli islamisti per decapitare gli avversari politici del ‘sultano’. E’ d’altronde esattamente ciò che in queste settimane Erdogan sta cercando di fare nei confronti di un’altra delle istituzioni turche relativamente controllate dall’establishment laicista e filo atlantico e dai settori islamisti vicini al predicatore Fethullah Gulen, ex alleato di ferro e diventato recentemente una vera e propria spina nel fianco del leader dell’Akp. Alla vigilia delle elezioni amministrative di marzo il premier ha lanciato un’offensiva per riprendere il controllo delle istituzioni giudiziarie, dopo che il 17 dicembre le procure di Istanbul e Ankara hanno ordinato decine di arresti nel suo entourage politico e imprenditoriale nell’ambito di una inchiesta per corruzione che a detta di molti rappresenta un tentativo dei suoi competitori all’interno del partito liberal-islamista per disarcionarlo dal potere. Dopo aver destituito alcuni capi della polizia e trasferito incarico alcune centinaia di ufficiali e agenti in qualche modo coinvolto nell’inchiesta, il premier ha rimosso dal suo incarico Muammer Akkas, uno dei pubblici ministeri che stanno conducendo le indagini, il che ha scatenato la protesta del Consiglio superiore dei giudici e del Consiglio di Stato, che lo hanno accusato di pressioni e minacce alla categoria e di non rispettare la separazione dei poteri. Nelle intenzioni del premier e del suo entourage c’è una ‘riforma della giustizia’ che limiti le prerogative dei giudici e aumenti quelle dell’esecutivo.
La guerra tra Erdogan e gli apparati dello stato non sembra però fermare la repressione contro chi contesta le sue politiche autoritarie, moraliste e liberiste nelle piazze. Nelle scorse ore sono stati incriminati per ‘terrorismo’ ben 36 manifestanti che l’anno scorso sono stati arrestate durante le proteste contro il governo innescate a fine maggio dal progetto governativo di distruzione del Gezi Park per costruire al suo posto un centro commerciale. Secondo il quotidiano ‘Hurriyet’, che cita fonti della Procura cittadina, gli accusati dovranno rispondere di reati quali partecipazione a organizzazione terroristica, propaganda sovversiva e detenzione di materiale pericoloso: in caso di condanna, rischiano dai tre ai 58 anni di reclusione.

E’ stata liberata invece nei giorni scorsi, dopo tre mesi di detenzione, una delle icone della rivolta popolare contro il governo, Emine Cansever (nella foto), ribattezzata la ‘zia con la fionda’. L’attivista era stata arrestata nell’ottobre scorso durante una retata contro presunti appartenenti all’organizzazione di estrema sinistra DHKP-C, il Partito/Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo.

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