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Al Qaeda alla conquista del Medio Oriente. Gli Usa nel pallone

Di Iraq, a lungo, non si è parlato più. La maggior parte delle truppe straniere si sono quasi del tutto ritirate dal paese prima bombardato, poi invaso e occupato, e la stampa internazionale non è mai sembrata particolarmente sensibile alle continue stragi che hanno sconvolto il paese. 

Ma di Iraq i media internazionali hanno dovuto di nuovo parlare nei giorni scorsi. Obbligati da un fatto tutt’altro che irrilevante: Al Qaeda è tornata (in realtà non se ne era mai andata…). La scorsa settimana parecchie centinaia di miliziani appartenenti alla sigla locale di Al Qaeda, l’Isil – Stato Islamico in Iraq e nel Levante – hanno invaso due importanti città del paese nella provincia occidentale di Anbar, Ramadi e Falluja, e ne hanno preso progressivamente il controllo, mettendo in fuga la polizia e le truppe fedeli al debole governo centrale dello sciita Al Maliki.
I media di tutto il mondo hanno riportato inorriditi – e come al solito in maniera più che superficiale – la foto della bandiera nera di Al Qaeda issata sugli edifici pubblici occupati dai suoi miliziani dopo aver messo in fuga i funzionari governativi. Negli scontro sono morte più di duecento persone, compresi molti civili inermi presi in mezzo ai combattimenti. Il primo ministro da Baghdad ha fatto appello ai cittadini e alle forze fedeli alle diverse tribù di Ramadi e Falluja affinché respingano i terroristi evitando così che l’esercito debba entrare nei loro quartieri con il rischio di trasformali in campi di battaglia e moltiplicare le vittime civili.

Se alcune fonti affermano che in realtà il grosso delle forze dell’Isil si è già ritirata dalle città lasciandovi solo degli avamposti, secondo altre il governo di Nouri Al Maliki sarebbe in procinto di scatenare una controffensiva in grande stile per riprendersi la provincia di Al Anbar. Da parte loro gli Stati Uniti hanno promesso che nelle prossime settimane – non sarà troppo tardi? – al governo di Baghdad saranno consegnati 58 droni, ma disarmati, da utilizzare per scovare i covi di Al Qaeda.
E’ vero che a Washington da un po’ di tempo la evidente forza di quello che una volta, quando era assai più debole, veniva definito il ‘network del terrore’, viene vista con preoccupazione. Ma Obama non sembra voler offrire un aiuto particolarmente risolutivo ad un governo iracheno egemonizzato dalle forze vicine a Teheran, mentre l’Iran spinge per frenare l’avanzata del radicalismo sunnita in un Medio Oriente che rischia di esplodere definitivamente, dal Libano alla Siria all’Iraq. Di fatto la inedita situazione sul campo ha costruito una sorta di alleanza indiretta, e asimmetrica, tra Stati Uniti (poco convinti) e Iran, passando per il governo di Baghdad.

La provincia di Al Anbar infatti è vitale negli equilibri di tutta la regione, visto che se Al Qaeda controllasse questo territorio nella parte occidentale dell’Iraq potrebbe utilizzarla come retroterra per rafforzare le proprie incursioni nelle regioni orientali della confinante Siria, dove negli ultimi mesi l’Isil ha perso posizioni a causa della controffensiva dell’esercito regolare ma anche della scesa in campo delle milizie popolari curde e di alcune brigate dell’Esercito Siriano Libero, i ribelli ‘moderati’ sostenuti dalla Lega Araba (in particolare dal Qatar) e dagli Stati Uniti. Secondo molti analisti è proprio da questa regione che sono partiti molti dei terroristi kamikaze che negli ultimi mesi hanno seminato il terrore in Libano contro le comunità sciite ed Hezbollah in particolare ed in Siria, nei quartieri abitati dalle comunità ancora fedeli – o quantomeno tolleranti – nei confronti del regime di Assad come cristiani e alawiti. Paradossalmente la struttura a network di Al Qaeda – una sorta di franchising del terrore – fa si che a volte in Siria le milizie dell’Isil competano con quelle del Fronte Al Nusra, anch’esso affiliato all’organizzazione fondamentalista internazionale. Nei mesi scorsi l’Isil ha dovuto subire l’onta di vedere le sue bande spostate dal fronte verso il nord, al confine con la Turchia, per lasciare il posto alle più contundenti brigate di Al Nusra. Il che ha creato non poche frizioni.
Al Qaeda cerca di strumentalizzare, come fa del resto anche in Siria, le inimicizie tra le varie componenti etnico-religiose dell’Iraq, denunciando quella che definisce una dittatura degli sciiti di Al Maliki, che sono maggioranza nel paese ma concentrati soprattutto nel centro-sud, contro i sunniti che sono invece una minoranza ma sono concentrati proprio nella provincia di Al Anbar. Non è un caso che la storica offensiva dell’Isil a Ramadi e Falluja sia stata scatenata dopo l’intervento delle forze di sicurezza irachene contro un presidio, un accampamento di fondamentalisti sunniti a Ramadi che da tempo protestavano contro le discriminazioni del governo di Al Maliki contro di loro. E’ sull’onda della rabbia popolare contro le autorità centrali che le milizie dell’Isil si sono impossessate con relativa facilità di commissariati, moschee ed edifici pubblici. Poi le forze di Al Qaeda hanno addirittura continuato l’offensiva, i combattimenti si sono avvicinati a soli 40 chilometri dalla capitale Baghdad dove domenica un’ondata di attentati rivendicati dall’Isil ha lasciato sul terreno almeno 19 morti.
Quello iracheno, allo stato, sembra davvero un rompicapo di difficile soluzione per gli apprendisti stregoni di Washington e per i sempre più preoccupati leader delle comunità e degli stati che il network jihadista sunnita considera elementi da cancellare dalla mappa del Medio Oriente. Scrive l’ottimo Gianandrea Gaiani su Il Sole 24 Ore:
“Di fatto l’Iraq oggi è governato solo dagli sciiti ma Maliki ha perso il controllo di ampie porzioni del territorio. A Nord Ovest le forze di sicurezza sono state estromesse da molte aree a maggioranza sunnita mentre la regione autonoma del Kurdistan si muove da tempo sul piano politico economico come uno Stato indipendente con un proprio esercito e una politica petrolifera autonoma che Baghdad contesta ma non sembra avere la forza di contrastare. Un contesto di sfaldamento del Paese che favorisce la penetrazione qaedista”. Continua Gaiani: “Le tribù sunnite della provincia di al-Anbar, legate da vincoli di sangue alle tribù dell’ovest siriano, hanno appoggiato la ribellione contro Bashar Assad fornendo denaro e combattenti mentre molti convogli di armi e munizioni diretti ai ribelli siriani sono transitati dall’Arabia Saudita attraversando al-Anbar. Il conflitto siriano ha poi accentuato le divisioni interne all’Iraq. I sunniti aiutano i ribelli mentre il governo di Maliki sostiene Assad consentendo il transito sul suo territorio di armi iraniane e volontari delle milizie sciite reclutate in Iran e nel sud dell’Iraq”.
Secondo l’analista del Sole 24 ore negli ultimi tempi Al Qaeda si sarebbe ampiamente ristrutturata per far fronte alle nuove opportunità fornite dalla situazione ma anche ai pericoli derivanti dal fatti di aver trasformato quella che prima era una strategia fondata soprattutto su attacchi terroristici e autobombe in una vera e propria guerra sul campo, con la mobilitazione di migliaia di combattenti in diversi stati:

“L’aspetto più rilevante sul piano strategico è rappresentato dalla nuova struttura di al-Qaeda: lo Stato Islamico di Siria e Iraq ha riunito i gruppi combattenti e terroristici attivi nei due Paesi e opera in un’area che comprende le province siriane e irachene a maggioranza sunnita. Composte per lo più da combattenti straniere, le milizie qaediste hanno stretto relazioni con molti esponenti delle tribù sunnite riuscendo a occupare Fallujah e Ramadi (…)  Oltre all’esercito, composto per lo più da sciiti visti come “invasori” dalla popolazione di al-Anbar, per cacciare i qaedisti Maliki cerca di mobilitare le milizie tribali sunnite eredi di quei “Comitati del risveglio” che lo stesso premier iracheno aveva emarginato dopo il ritiro statunitense, due anni or sono. A favorire i disegni di Maliki sembra contribuire non certo la fiducia delle tribù sunnite nel governo quanto il risentimento nei confronti dell’Isis che in Siria concentra i suoi sforzi militari non contro le truppe governative ma soprattutto contro le altre formazioni di ribelli che rifiutano l’ideologia salafita, milizie moderate composte da tribù sunnite imparentate con quelle irachene. La decisione dei qaedisti di assumere il controllo di due città irachene può essere quindi interpretata come una prova di forza dell’Isis ma può anche essere letta come un gesto disperato di miliziani sconfitti dai ribelli moderati in Siria e costretti ad affrontare in Iraq una battaglia decisiva che potrebbe annientarli”.

Per ora gli Stati Uniti non intendono mandare truppe a sostegno del governo iracheno, e neanche rifornirlo di armi che potrebbero essere poi usate contro Washington. Ma più di qualcuno negli Stati Uniti si chiede come bloccare l’avanzata di quella che è nata come una creatura di Washington da utilizzare nella lotta contro i suoi nemici – Russia, Iraq, Siria, Iran, Libano – e che si sta trasformando sempre più in un pericoloso competitore nei confronti degli interessi statunitensi in Medio Oriente e non solo.

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