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Sud Sudan: l’Uganda impone la tregua, sotto il segno del petrolio

“L’intervento ugandese ha messo i ribelli nell’angolo” dice alla MISNA padre Sebhat Ayele, direttore a Kampala della rivista Leadership, all’indomani dell’accordo di cessate-il-fuoco tra il governo di Juba e il fronte legato all’ex vice-presidente Riek Machar. 

Firmato giovedì sera ad Addis Abeba grazie a una mediazione dei paesi africani dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), l’accordo prevede la fine degli scontri armati entro 24 ore.

Il Sud Sudan è un paese divenuto indipendente solo nel 2011, dopo una guerra civile durata oltre 20 anni. Secondo le stime delle Nazioni Unite, i profughi causati da un mese di scontri sono circa mezzo milione, i morti sarebbero alcune decine di migliaia, i feriti non si contano. Particolarmente colpite le regioni settentrionali, dove si concentra la maggior parte dei pozzi di petrolio.

Se l’intesa reggerà alla prova dei fatti è da vedere. Un portavoce dei ribelli ha denunciato violazioni che oggi sarebbero state commesse dall’esercito in diverse regioni. Di certo l’intesa è stata però sottoscritta pochi giorni dopo la riconquista di Bor e di Malakal, importanti centri urbani che erano passati sotto il controllo degli uomini di Machar. Per l’avanzata l’intervento di Kampala è stato decisivo. “Il battaglione inviato dall’Uganda – sottolinea padre Ayele – ha a disposizione mezzi di artiglieria pesante ed è sostenuto da elicotteri da guerra che nel contesto sud-sudanese fanno la differenza”. Secondo il colonnello Felix Kulayigye, un commissario politico dell’esercito ugandese, i militari di Kampala hanno “messo in sicurezza” l’aeroporto di Juba pochi giorni dopo il presunto tentativo di golpe denunciato dal presidente Salva Kiir il 15 dicembre.
Non sorprende allora che una delle richieste dei ribelli, sulla quale per altro l’accordo di cessate-il-fuoco tace, sia proprio il ritiro del contingente di Kampala. “L’intervento ugandese è stato inizialmente motivato con l’esigenza di proteggere i cittadini ugandesi e favorirne il rimpatrio – sottolinea padre Ayele – ma con il passare dei giorni è apparso chiaro che le cose stavano diversamente”.

A scoprire le carte è stato lo stesso Yoweri Museveni. Annunciando, la settimana scorsa, che i militari ugandesi avevano partecipato a “una grande battaglia” al fianco dell’esercito di Juba. Ufficiali di Kampala hanno poi confermato la partecipazione ugandese all’offensiva culminata nella riconquista di Bor, seguita di pochi giorni dalla presa di Malakal. Di “un ruolo decisivo di Kampala su un piano militare” dice alla MISNA anche Petrus de Kock, analista di questioni strategiche per vari think tank dell’area sub-sahariana, tra i quali l’Istituto sudafricano per gli affari internazionali (Saiia). Secondo la sua interpretazione, i ribelli non avrebbero avuto di fatto alternative alla tregua. La pressione su di loro era forte. Perché in gioco non c’è solo il potere politico a Juba ma il controllo dei pozzi di petrolio, la grande risorsa del Sud Sudan, concentrata proprio nelle zone dove i combattimenti sono stati più intensi. Secondo il direttore di Leadership, “l’Uganda ha bisogno di un Sud Sudan stabile per via di legami economici e commerciali sempre più intensi”. Le voci sono diverse ma la parola chiave è petrolio, una risorsa della quale il Sud Sudan è ricco come nessun altro paese dell’area. E della quale l’Uganda vuole diventare una sorta di ‘hub’ regionale. Anche attraverso la costruzione di un oleodotto che, raggiungendo il porto keniano di Lamu, potrebbe aprire un corridoio di rilievo strategico per tutta l’Africa orientale. Secondo padre Ayele, in effetti, pur nella sua unilateralità l’intervento di Kampala ha interpretato esigenze condivise da altre capitali della regione. Il sostegno a Kiir si spiegherebbe con il fatto che il Sud Sudan possiede troppi pozzi di petrolio “per esser lasciato nel caos”.

Il negoziato promosso dall’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), un organismo che rappresenta sette governi dell’Africa orientale, risponde alla stessa necessità. Ed è stato proprio questo negoziato, dopo i colpi di artiglieria degli ugandesi, a portare a un accordo di cessate-il-fuoco. Jonah Leff, del centro studi Small Arms Survey, sottolinea che l’accordo sarà seguito da una nuova fase di negoziati. Secondo l’esperto, “i nodi da sciogliere sono diversi ed è improbabile che le milizie sul terreno siano disposte ad aspettare”. Molto ha a che fare con la composizione del fronte che, finora, si è battuto al fianco di Machar. Oltre ché, s’intende, sugli spazi di manovra dello stesso ex vice-presidente. “Non è escluso – sostiene Leff – che Machar cerchi di utilizzare la tregua per riarmarsi e ridisporsi dopo le sconfitte dell’ultima settimana”.

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