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Il Fmi ai giudici spagnoli: “chiudete un occhio sui licenziamenti collettivi”

La dittatura della troika sui Pigs si fa sempre più invadente e stringente. L’ultimo esempio viene dalla Spagna, paese tra i più colpiti dalla cura a base di tagli e austerity imposta negli ultimi anni da Fmi, Banca Centrale e Commissione Europea: disoccupazione al 27%, decine di migliaia di sfratti, povertà in aumento vertiginoso. 

Incredibilmente, in questo clima, martedì scorso lo stesso Fondo Monetario di Christine Lagarde è intervenuto per raccomandare ai magistrati spagnoli di non essere troppo rigidi nel giudicare i licenziamenti collettivi nel settore privato. L’istituzione finanziaria ha raccomandato sì al premier Rajoy di aumentare le protezioni previste per i lavoratori a tempo determinato, ma soprattutto ha chiesto ai tribunali spagnoli di non intralciare le imprese nel momento in cui vogliono licenziare.
Dal FMI è venuto anche un forte apprezzamento per la riforma del lavoro varata nel 2012 dal governo – Il PP ringrazia – e che ha provocato una impennata senza precedenti di licenziamenti, tagli salariali e di diritti. “La riforma introdotta nel 2012 promette un miglioramento significativo nel funzionamento del mercato del lavoro riducendo il dualismo, la rigidità salariale e la mancanza di flessibilità interna delle imprese” afferma il Fmi secondo il quale ‘riforme’ simili andrebbero estese a tutto il continente. Addirittura l’istituzione guidata da Lagarde considera che a causare l’aumento esponenziale della disoccupazione negli ultimi anni sarebbe stato “l’eccessivo aumento dei salari” che il crollo delle retribuzioni a partire dal 2010 ha solo in parte ridotto. Il Fmi afferma anche che in Spagna il costo di un licenziamento ingiustificato per un’azienda si aggira intorno a 33-45 giorni per anno lavorato (si parla di lavoro a tempo indeterminato), il che sarebbe troppo alto rispetto a una media continentale di 21 giorni. D’altra parte a Madrid il licenziamento ingiustificato di un lavoratore a tempo determinato costa solo 9 giorni. Un divario eccessivo, secondo il Fmi, che ‘consiglia’ di ridurre la forbice.
Le ingerenze della Lagarde sono state apprezzate dalla destra e dai liberali spagnoli, ma non dalla parte più progressista della magistratura. Il FMI “vuole convertirsi in una divinità da adorare in maniera obbligatoria” ha accusato il portavoce dell’associazione “Giudici per la democrazia”, Joaquim Bosch, secondo il quale l’organo internazionale vuole sopprimere il controllo del potere giudiziario in materia di lavoro e promuovere il ritorno a relazioni lavorative ottocentesche. “Vogliono che i nostri tribunali agiscano rispettando obiettivi economici prefissati senza tener conto dei diritti delle parti coinvolte nei procedimenti aperti sui licenziamenti” spiega Bosch secondo il quale “le persone non possono essere trattate come merci totalmente assoggettate alle leggi di mercato”. Il portavoce di Giudici per la democrazia indica che i magistrati devono essere rispettosi solo della legge e dei principi costituzionali e non delle esigenze delle imprese e che la divisione dei poteri, così come l’indipendenza della magistratura, sono fondamentali in uno stato di diritto. “E’ assurdo che il Fmi presenti come soluzioni di tipo tecnico e inevitabile ricette che in realtà sono ti tipo ideologico, frutto di una visione di parte delle relazioni economiche” ha accusato di nuovo Bosch che respinge le pressioni della Lagarde e la sua pretesa che i tribunali spagnoli agiscano secondo il suo volere.

In realtà, a vedere i dati degli ultimi anni, i magistrati spagnoli non sono stati poi così severi nei confronti delle imprese che hanno avviato licenziamenti collettivi, in alcuni casi neanche alle prese con seri problemi di profitto o con una crisi che giustificasse il taglio della pianta organica.
Sono state infatti ben 45 mila le imprese spagnole che hanno chiesto e ottenuto l’avvio degli Ere (Expedientes de regulación de empleo, procedimenti propedeutici alla cessazione del rapporto di lavoro) dal febbraio del 2012, quando è entrata in vigore la ‘riforma del lavoro’ di Rajoy, e il novembre del 2013. Tanti, in 21 mesi (per un totale di 800 mila lavoratori e lavoratrici) quanti se ne erano avuti nei 48 precedenti, a dimostrazione di quanto le nuove leggi in materia imposte dal Partito Popolare – sotto dettatura della Troika – facilitino i licenziamenti rendendoli più veloci e meno costosi.

La promessa di Rajoy e della Ceoe, la confindustria spagnola, era stata che aumentando la flessibilità del mercato del lavoro si sarebbero create più occasioni. In realtà è avvenuto esattamente il contrario: gli imprenditori hanno approfittato delle nuove leggi su misura per licenziare lavoratori che avevano un contratto a tempo indeterminato e per coprire poi una parte delle carenze di organico con lavoratori assunti con contratti ‘spazzatura’ oppure completamente al nero. Altro che “Europa dei diritti”.

Scriveva pochi giorni fa sul Corriere della Sera Andrea Nicastro, a proposito di ‘flessibilità in chiave spagnola”:  “L’alternativa che l?anno scorso la Nissan ha dato ai sindacati spagnoli era in stile Electrolux: mille nuove assunzioni con il 40% di stipendio in meno oppure mille licenziamenti. Per l’azienda si trattava di decidere dove costruire un nuovo modello d’auto a prezzi competitivi. Aveva l’intera Europa low cost in cui scegliere: dalla Polonia all’Ungheria, dalla Serbia alla Lituania. (…) Legge alla mano la Nissan non avrebbe avuto ostacoli ai licenziamenti. Altro che articolo 18. Nel regno iberico basta prevedere un calo di fatturato per inviare le lettere. Così le principali sigle sindacali, Comisiones obreras e la Union general de trabajadores, hanno combattuto, scioperato, limato le perdite per i nuovi assunti, ma alla fine hanno firmato. I vecchi operai sono restati a patto che i mille nuovi arrivino all’80% dello stipendio medio fra 7 anni. Nell’accordo anche maggiore flessibilità interna in termini di orari e weekend. (…) Il caso ha fatto scuola. È stato evocato nei felpati saloni del vertice di Davos. Piace al premier inglese David Cameron e all’ad Fiat-Chrysler Sergio Marchionne. (…) Meno stipendio in cambio di 300 posti di lavoro e più flessibilità negli stabilimenti spagnoli Michelin. Niente straordinari e più flessibilità alla Opel. Più ore in cambio di nuovi modelli anche per Ford, Volkswagen, Citroën. Più flessibilità e addirittura più soldi all’Iveco. Il risultato di tanti accordi a senso unico è una crescita spettacolare del settore automobilistico: da 2,2 milioni di veicoli prodotti nel 2013 a 3 milioni previsti nel 2015. Senza neppure un brand nazionale, la Spagna è la seconda fabbrica d’auto europea dopo la Germania. (…) Gli strumenti messi in campo dalla riforma del lavoro sono stati però utilizzati in tutti i settori. Permettono di derogare dal contratto nazionale sia a livello regionale sia aziendale. Così sono scesi i salari nel turismo, nel commercio, nell’informazione, nel pubblico impiego (con stipendi congelati da anni) e nei servizi (famoso lo sciopero ad oltranza degli spazzini di Madrid che si è chiuso con il no ai licenziamenti, ma il blocco quadriennale dei salari). Il risultato è una caduta del costo del lavoro generalizzata, attorno all’8 per cento dal 2010. (…) Il governo Rajoy si appunta la medaglia al petto. Se è tornata una timida crescita è merito della riforma. Se stanno tornando i capitali stranieri è perché gli investitori vedono un ambiente adatto al business. L’opposizione fa notare che la disoccupazione non è affatto scesa in termini reali, ma solo grazie all’esodo degli immigrati”.

Un quadro desolante, quello descritto da un giornale filo padronale come il Corriere. Che però non basta alle sanguisughe del Fondo Monetario e della Troika. 

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