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Il boicottaggio funziona, e anche Usa e Ue premono su Israele

In Italia il tema del boicottaggio, del disinvestimento e delle sanzioni nei confronti di Israele e dei suoi interessi è quasi un tabù, nonostante che da anni le organizzazioni di solidarietà con il martoriato popolo palestinese stiano portando avanti campagne in questo senso ed ottenendo a volte importanti risultati. 

Nel resto del pianeta, anche in quei paesi i cui governi sono fieri alleati e sostenitori dello ‘stato ebraico’, le campagne di boicottaggio vanno a gonfie vele e cominciano a colpire seriamente l’economia coloniale israeliana. La decisione da parte dell’attrice di Hollywood Scarlet Johansson di abbandonare l’ong internazionale Oxfam che gli rimproverava il suo contratto pubblicitario con l’azienda israeliana Sodastream, basata in una colonia illegale nella Cisgiordania occupata, è servita a riportare la questione sulla grande stampa. Negli ultimi mesi le campagne internazionali Bds hanno ottenuto ottimi risultati: ad esempio il grande gruppo bancario olandese Pggm ha deciso di disinvestire per motivi etici dalle cinque banche israeliane con cui collaborava perché queste hanno aperto succursali nelle colonie ebraiche in Palestina; il Ministero delle Finanze della Norvegia ha escluso dai suoi fondi pensione due aziende israeliane, la Danya Cebus e la Israel Investments, per lo stesso motivo. A dicembre l’Associazione degli Studi Americani, un’organizzazione statunitense che raggruppa 5000 soci, ha deciso di unirsi al boicottaggio accademico nei confronti di Tel Aviv in considerazione dell’impatto che il sistema di apartheid israeliano nei confronti dei palestinesi produce in termini di violazione dei diritti di questi ultimi all’istruzione. Già nel maggio del 2013 lo scienziato di fama internazionale Stephen Hawking aveva cancellato un viaggio in Israele esplicitando la propria adesione al boicottaggio.
Israele da sempre minimizza gli effetti delle campagne di Bds, ma dal 2007 queste sono riuscite a bloccare nuovi contratti o a ottenerne la rescissione per un valore complessivo di vari miliardi di euro. La pressione internazionale ormai si fa così forte che il tema della reazione alle campagne Bds da almeno tre anni è al centro delle attività dell’esecutivo di Tel Aviv – promotore nel 2011 di una legge che punisce chi partecipa al boicottaggio – diviso tra coloro che spingono per una controffensiva e coloro che invece ciò farebbe il gioco dei promotori del Bds. 

Secondo alcune organizzazioni che promuovono il Bds, negli ultimi mesi in Europa si è riusciti a bloccare l’apertura di nuovi negozi della catena israeliana di cosmetici Ahava e si sono cancellati alcuni contratti con l’impresa di sicurezza privata G4S. Certamente gli investimenti di aziende europee in Israele ed anche negli insediamenti coloniali, dove vivono quasi 600 mila persone, sono consistenti: solo la francese Veolia è firmataria di contratti per ben 5400 milioni di euro l’anno.
Finora l’Unione Europea ha tuonato contro la colonizzazione della Cisgiordania ma non è andata molto oltre le vuote dichiarazioni; però ora Bruxelles ha approvato una direttiva che impedisce qualsiasi collaborazione con privati e istituzioni legate alle colonie ebraiche in Cisgiordania, il che blocca 700 milioni di euro di investimenti in progetti di ricerca. Anche le pressioni da parte dell’UE affinché i prodotti realizzati da aziende israeliane nelle colonie ebraiche vengano etichettati in maniera distinta e identificabile stanno causando molti mal di pancia alla già traballante economia di Tel Aviv.
Che il boicottaggio internazionale economico, culturale e artistico nei confronti di Israele stia funzionando diventa sempre più evidente nelle reazioni isteriche dei suoi leader.
L’ultimo esempio viene dalle dure e scomposte accuse rivolte dal vice primo ministro e titolare della difesa di Tel Aviv contro uno dei principali alleati e sostenitori di Israele, il ministro degli Esteri degli Stati Uniti. Tre settimane fa Moshe Yaalon ha attaccato fontalmente John Kerry accusandolo di avere “una ossessione fuori luogo” contro Israele e di essere pervaso da un “fervore messianico”. Il capo della diplomazia Usa si era limitato a consigliare a Israele di essere più accomodante nei confronti delle necessità di realizzare una vasta alleanza dei paesi arabi sotto l’egida di Washington che l’intransigenza di Tel Aviv mette continuamente a rischio. Kerry aveva sottolineato che la sicurezza e la prosperità di Israele continueranno ad essere assai relative finché non si porrà fine all’occupazione della Cisgiordania e non si raggiungerà un accordo definitivo con l’Anp sbloccando un processo di pace ostaggio dei falchi di Tel Aviv.
Per rafforzare il suo ragionamento, Johan Kerry non ha mancato di mettere il dito nella piaga, affermando la possibilità che le campagne di boicottaggio crescano di fronte alla chiusura a riccio di Israele. “Esiste una crescente campagna di delegittimazione di Israele, una campagna in pieno sviluppo. La gente è molto recettiva nei confronti di queste iniziative. Si parla di boicottaggio e di altre cose”.
Una sottolineatura – definita dalla ministra della Giustizia Tzipi Livni come un “consiglio amichevole di un amico di Israele – bollata invece come “immorale e ingiusta” da parte del premier israeliano Netanyahu. “Non esiste pressione che mi possa obbligare a cedere sugli interessi vitali dello Stato di Israele, specialmente sulla sicurezza dei suoi cittadini” ha tuonato il primo ministro in riferimento al piano sul Medio Oriente sponsorizzato da Kerry.  
E’ evidente che la pressione di Bruxelles e di Washington nei confronti del governo israeliano aumenta, e che la storica carta bianca concessa a Tel Aviv da parte dei due principali protettori a livello internazionale comincia ad essere condizionata al rispetto degli interessi nell’area di Stati Uniti e Unione Europea. Da fondamentale pedina occidentale in Medio Oriente lo “stato ebraico” si sta progressivamente trasformando in una spina nel fianco rispetto ai piani di normalizzazione dell’area, necessaria in un contesto in cui aumenta il peso economico, militare e politico delle petromonarchie del Golfo.
Dalla loro i due blocchi hanno un’arma assai importante di condizionamento nei confronti di Tel Aviv. L’enorme  sostegno economico fin qui accordato.
Ogni anno Washington concede a Israele 2300 milioni di euro di aiuti militari, un accordo che però scadrà nel 2017. Nel 2012 e nel 2013 il Pentagono ha investito 600 milioni di dollari in un sofisticato scudo missilistico realizzato in Israele, e secondo gli ultimi dati resi noti dalla Casa Bianca gli States esportano in Israele ogni anno beni per un valore complessivo di 15 miliardi di dollari, mentre ne importa da Tel Aviv per 25. Se Israele continuasse a perseguire una strategia troppo distante dagli interessi statunitensi in Medio Oriente i rubinetti potrebbero chiudersi, e anche una riduzione parziale degli aiuti risulterebbe fatale per Tel Aviv.
Inoltre, il ministro delle Finanze israeliano, l’imprenditore Yair Lapid, ha avvertito la settimana scorsa che l’Unione Europea potrebbe rescindere molti dei suoi accordi di collaborazione economica con ‘lo stato ebraico’ in considerazione del fatto che Israele viene sempre più bollato come il principale responsabile del fallimento degli accordi di pace con i palestinesi. In questo caso, ha detto allarmato Lapid, “l’economia entrerebbe in recessione, l’inflazione schizzerebbe in alto, i bilanci di sanità, istruzione, welfare e sicurezza dovrebbero essere tagliati e molti mercati internazionali si chiuderebbero”.

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