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Ayşe Gökkan, un sindaco contro il muro

NUSAYBIN – ”Il mondo è un villaggio piccolo e tutto può essere avvicinato” dichiara questa donna, prima cittadina d’un luogo di confine qual è Nusaybin, dove la geometria della geopolitica ha tagliato l’area con righello e accetta. Da una parte Turchia, dall’altra Siria e la comunità kurda a fare i conti con amministrazioni, stati centrali ed eserciti differenti. Eppure fino a un giorno dello scorso ottobre il confine poteva essere varcato facilmente da cittadini e famiglie che vivono qui e là. Certo dalle proteste della Primavera anti Asad e con l’escalation del conflitto siriano le condizioni di vita erano diventate difficili sino a precipitare col drammatico flusso dei profughi. Le cifre ufficiali parlano di tre milioni, per metà bambini e minorenni, ma il numero è ampiamente in difetto. Il governo turco ha inizialmente raccolto in campi d’accoglienza decine e poi centinaia di migliaia di rifugiati, quindi ha posto i blocchi. In zone aperte come il confine che divide Nusaybin fin dentro il suo cuore, la metamorfosi della frontiera è passata dalla simbologia di Turchia e Siria presente sulla nuda terra alle pietre e al filo spinato del muro di separazione.

Iniziato in un’alba dell’ottobre 2013 con squadre di operai al lavoro e i mitra dei soldati minacciosi a controllarli e tenere lontane le proteste della gente che non voleva credere all’insensata separazione. Il muro doveva correre per sette chilometri da ovest a est con un’altezza di circa tre metri. “Fui svegliata dall’allarme dei cittadini – ricorda il sindaco Ayşe Gökkan – e immediatamente corsi sul luogo. I militari facevano un cordone attorno al cantiere dove il numero degli abitanti cresceva. Protestai con l’ufficiale responsabile che mi parlò di ordini del ministero e del governo. Io, però, come autorità municipale ero all’oscuro di tutto, nessuno mi aveva avvertita. Quella barriera avrebbe impedito agli abitanti della città di circolare liberamente, d’incontrare amici e parenti che abitano nell’altro settore. Come un tempo a Berlino. Come oggi a Gerusalemme. Una mostruosità! Così ho deciso di contestare quella  vergogna, attuando uno sciopero della fame. Sono rimasta accanto al cantiere per giorni. Ricevevo visite e conforto da parenti e da tanti cittadini che mi sostenevano nonostante le pressioni e le minacce dei soldati”.  

“Dormivo sotto una tenda, sono stata insultata e umiliata. Di notte i militari illuminavano gli anfratti dove mi ritiravo per i bisogni fisiologici; mi aizzavano contro i cani, ma non ho mollato”. La tenacia di Ayşe, diffusa da numerosi media internazionali, ha limitato l’estensione del muro, lei è convinta che anche il chilometro eretto a minore altezza alla fine verrà abbattuto “Le due comunità non possono rimanere divise, ho interrotto la protesta perché ho ricevuto assicurazioni per una soluzione, se non arriverà sono pronta a ricorrere al Tribunale dell’Aja”. Gökkan è un’attivista combattiva, ha collezionato 150 denunce per azioni di lotta durante una carriera politica non lunghissima. Ora ha scelto di non ripresentarsi al vertice dell’amministrazione in una città dove il BDP raccoglie il 92% di voti, passerà il testimone del collegio a un’altra donna: Sara Kaya. Ribadisce che il partito con qualunque candidato prosegue il progetto non solo di puntare alla carica di sindaco, che elegge a occhi chiusi, ma di raccogliere la collettività kurda e chiunque vorrà unirsi. “La vicenda del muro ha mostrato a tutti gli abitanti di Nusaybin le logiche di divisione del governo Erdoğan che predica in un modo e agisce al contrario”. 

“Inizialmente il leader turco sosteneva di comprendere le nostre ragioni, raccontava d’essere stato arrestato e perseguitato, voleva confondere gli abitanti che ora non gli credono più. Negli ultimi cinque anni s’è rivolto solo ai turchi, maschi e islamici. Le persone comprendono che qui non è Turchia e là (e indica oltre la finestra del suo ufficio, ndr) non è Siria. Siamo un tutt’uno. Etnìa, religione, stato non sono importanti, il nostro programma di liberazione dei popoli, come testimonia il progetto della Rojava, è aperto a tutti”. Purtroppo neppure questa struttura politica, che per un buon periodo ha preservato i kurdi dai massacri, è sicura viste le incursioni jihadiste che dalla scorsa estate imperversano sul versante interno della Rojava. Né Gökkan può far granché per la tragedia dei profughi. Riprende “Non lontano da qui c’è un campo con 8.000 persone che necessitano di aiuti. Ma esistono campi molto più grandi in condizioni disastrose dove si sono verificati casi di suicidio. Come sindaco non posso far nulla; non ho competenze, decidono ad Ankara prefettura e governo. Entrambi si lavano la coscienza delegando all’UNHCR”.

“Avete visto i camion coi viveri davanti all’accesso del confine su cui vigila l’esercito turco; se i militari non consentono il passaggio i Tir restano bloccati per giorni con tutto il loro carico. Per non parlare dei medicinali salvavita e le sacche di sangue per le trasfusioni che devono essere consegnate in tempi brevissimi. Invece…” Scuote la testa e rilancia “Nei mesi scorsi alcuni concittadini mi rivelavano i loro viaggi solidali: attraversavano la frontiera verso i campi profughi più vicini portando masserizie e ciò che poteva alleviare la penosa quotidianità dei profughi di qualunque etnìa, siriani, kurdi, armeni, aleviti. Questi tragitti d’aiuto sono quasi scomparsi perché la terra di nessuno è stata disseminata di mine antiuomo. Ci sono state vittime delle mine oppure dei cecchini di cui non conosciamo la canna del fucile”. Jihadisti, siriani, turchi, contractors non è facile scoprirlo, ma per il sindaco non è questo il problema “Il conflitto incarognito ha prodotto un’emergenza straordinaria, migliaia di bambini muoiono di morbillo e ora anche di polio, servono medicine per alcune malattie infantili. Davanti a un simile strazio i governi e le organizzazioni internazionali non possono più tirarsi indietro”.     

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