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Colombia: gli squadroni della morte difendono l’oligarchia

Gli squadroni della morte di estrema destra, teoricamente e ufficialmente smantellati durante la presidenza dell’ultrà di destra Alvaro Uribe (2002-210) nell’ambito di un ‘processo di pace’ solo di facciata, “sono fra i principali responsabili delle violazioni dei diritti umani oggi in Colombia”. A denunciare ufficialmente ciò che tutti sanno è stato Todd Howland, rappresentante dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani nel paese sudamericano, alla presentazione del rapporto annuale a Bogotá.

I cosiddetti nuovi paramilitari – la polizia ha appositamente coniato il termine Bacrim (bande criminali), acronimo rilanciato dallo stesso Uribe che, però, nega ogni responsabilità nella loro nascita – hanno proliferato proprio dopo il disarmo delle Autodifese unite della Colombia (Auc) acquistando sempre più potere soprattutto nelle regioni rurali dominate dai latifondisti e dall’olgarchia terriera. I più famigerati e conosciuti sono Los Urabeños, La Empresa, Los Rastrojos e si dedicano soprattutto al narcotraffico per finanziarsi e al controllo del territorio per conto della classe padronale, aggredendo e uccidendo attivisti sociali, contadini, sindacalisti e membri dei partiti di sinistra che mettono in discussione lo strapotere dell’oligarchia terriera ma anche imprenditoriale.
Per Howland fra i loro obiettivi c’è ottenere il “controllo sociale” colpendo principalmente “difensori dei diritti umani, dirigenti comunitari, funzionari pubblici, agenti di polizia e chi si batte per la terra”.

Howland ha citato due esempi “del livello di violazioni dei diritti umani” in Colombia, ricordando che il suo ufficio nel 2013 ha contato 14 massacri solo nel dipartimento di Antioquia, storica roccaforte paramilitare, e 8 omicidi brutali a Buenaventura, principale porto del Pacifico colombiano. Secondo l’Alto Commissariato dell’Onu, “la povertà, l’esclusione sociale, la mancanza di opportunità continuano a far sì che giovani e bambini siano vulnerabili al reclutamento, all’utilizzo, allo sfruttamento e alla violenza sessuale da parte di questi gruppi”.

Howland ha insistito sulla necessità di “studiare in modo approfondito cosa è successo durante la smobilitazione dei paramilitari”, un processo farraginoso, su cui ampi fronti della società civile espressero a suo tempo dubbi e timori, che ha previsto, fra l’altro, una pena massima fino a otto anni di carcere per chiunque avesse confessato qualsiasi tipo di crimine, dall’esazione alla strage di civili. Poche sentenze e preoccupanti indici di recidività hanno contribuito ad aggravare la situazione, in attesa che entro la fine del 2014 escano dal carcere 268 ex paramilitari che hanno già scontato la loro mite condanna, mentre i principali ‘boss’ sono stati estradati negli Stati Uniti.

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