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Gulen, l’anti-Erdogan che piace a Usa e Ue

Mentre scriviamo non sono ancora noti i risultati delle elezioni amministrative svoltesi oggi in Turchia e alla quale erano chiamati a partecipare circa 52 milioni di elettori. Elezioni chiave per capire se il ‘sultano’ Erdogan potrà continuare a detenere indisturbato il potere oppure se il suo partito, visti gli scarsi risultati, si convincerà a “cambiare cavallo” preferendogli un personaggio meno compromesso con scandali e inchieste per corruzione. Grandi alternative i turchi oggi non ne avevano: da una parte i liberal-islamisti dell’Akp, dall’altra i repubblicani nazionalisti e laicisti del Chp. Tutti gli altri partiti – dal curdo Bdp a quelli di sinistra più o meno radicale – grandi chance di affermazione, se non a livello locale in alcune province, non ne avevano. Capiremo comunque entro poche ore quanto avrà influito sul risultato del voto la sommossa popolare dell’estate scorsa da una parte ma soprattutto la guerra dichiarata al premier e al suo blocco di potere dalla potente confraternita Hizmet e dal suo leader indiscusso Fetullah Gulen, a capo di un vasto impero commerciale ed editoriale capace di orientare le scelte di pezzi consistenti di establishment e teoricamente alcuni milioni di voti. Un’alternativa interna al sistema di potere e nel solco del connubio tra conservatorismo islamista e liberismo selvaggio. Interessante il ritratto di Gulen e della sua rete affaristico-religiosa tracciato dalla giornalista de La Stampa Marta Ottaviani.

Scuole, giornali, banche e uomini. Così cresce la corazzata anti-Erdogan

Fa capo a Fetullah Gulen, l’uomo che dall’esilio americano finanzia in tutto il mondo il movimento “Hizmet”: “si tratta di un’iniziativa civica a livello globale che trova le sue radici nella tradizione spirituale dell’Islam”. Ma in molti si chiedono: chi c’è dietro? E dove vuole arrivare?

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Più che un movimento, è una vera e propria corazzata. Dove a capo, secondo i più maligni (o i più realisti) c’è la più pericolosa eminenza grigia della politica turca. Il suo nome è Fetullah Gulen, ha 72 anni, viene dall’Anatolia profonda e dal 1999 vive in esilio volontario negli Stati Uniti. La motivazione ufficiale sono sofisticate cure contro il diabete, quella ufficiosa godere della protezione (e del controllo) degli americani e sfuggire da chi, in Turchia, lo vorrebbe vedere morto, in testa i militari, storici protettori dello Stato laico moderno fondato da Mustafa Kemal Ataturk.

 

 

Sul suo sito ufficiale si legge che il suo movimento Hizmet, che in turco significa “servizio”, rappresenta “un’iniziativa civica a livello globale che trova le sue radici nella tradizione spirituale dell’Islam”. Un movimento, insomma, dedito alla pace e alla convivenza universale fra culture e fedi diverse. Sotto questa bandiera, Fetullah Gulen ha incontrato Papa Giovanni Paolo II e nel solco di questi valori porta avanti da anni la sua attività, invitato nei maggiori simposi internazionali sul tema.

Ma in Turchia e fuori c’è chi diffida di questa descrizione così rassicurante. Per prima cosa, Hizmet è una poderosa macchina da soldi, che fino a qualche settimana fa traeva la sua maggiore fonte di introito da quello che a Gulen sta a cuore più di ogni altra cosa: l’educazione. Per anni in Turchia milioni di studenti hanno frequentato le sue dersahane, ossia centri dove venivano preparati per affrontare gli esami di Stato alla fine dei cicli scolastici e quelli per essere ammessi alle università. Si parla di un giro di diversi milioni di dollari all’anno, se si pensa che l’80% di questi centri di ripetizioni era di sua proprietà diretta o indiretta. Ma la sua attività non si ferma al territorio nazionale. In pochi anni, Gulen ha aperto scuole in molti Paesi, spesso con la compiacenza di Washington. La sua rete è in continua espansione e uno degli Stati a cui l’eminenza grigia della politica turca guarda con più interesse è proprio l’Italia. Non sempre gli è andata bene. In posti come la Russia o l’Uzbekistan i suoi istituti sono stati chiusi e anche l’Olanda lo guarda con grande diffidenza. Ma, nonostante questo, ha istruito ed educato ai principi dell’Islam centinaia di miglia di ragazzi, a cui spesso ha fornito borse di studio e aiuti per proseguire nel loro cammino di istruzione nelle università più prestigiose del mondo. 

Oltre all’educazione, Gulen è molto attivo nel campo dell’editoria e dell’associazionismo. Sono di sua proprietà due emittenti televisive in Turchia e una negli Stati Uniti. Sono suoi il quotidiano turco Zaman, che tira un milione di copie al giorno, diversi periodici turchi, arabi, nonché il gruppo editoriale Cihan al quale fa capo una delle agenzie stampa più importanti del Paese.

Ma quello che in molti trascurano è il capitale umano di cui Gulen dispone. Ed è una risorsa immensa. Schiere di ex studenti che lui ha aiutato e che oggi difendono e aiutano riconoscenti il loro Hoca, che in turco è il Maestro. Uomini d’affari legati al movimento Hizmet fanno parte di lobby e think tank a Washington e a Bruxelles. Nel 1994 alcuni fetullahci (in turco, seguaci di Fetullah) hanno fondato Bank Asya e Isik Sigorta, due fra gli istituti di credito e assicurativi più importanti della Turchia. 

A tutto questo vanno aggiunte le migliaia di seguaci del grande vecchio infiltrati nella polizia e nella magistratura. I quotidiani turchi di opposizione scrivono che non sono meno di 200mila i poliziotti in Turchia pronti a obbedire all’Hoca. Dalla sua parte anche decine di magistrati, minoritari in un istituzione storicamente ultralaica, ma che negli ultimi anni hanno preso sempre più piede. 

Il premier islamico-moderato, Recep Tayyip Erdogan, che proprio a Gulen deve gli aiuti economici per le sue prime campagne elettorali e la sua ascesa politica, lo teme e nelle scorse settimane, per contrastarlo, ha fatto chiudere con un decreto-lampo i centri di ripetizione che stanno alla base della ricchezza del movimento. 

Non ha fatto però i conti con il capitale umano del movimento Hizmet, che dal 17 dicembre, giorno dello scoppio della tangentopoli turca, gli ha procurato non pochi problemi, proprio grazie ai seguaci infiltrati nella polizia e nella magistratura. Erdogan grida al complotto e invoca la resa dei conti alle urne. Sarà quello il momento per capire se Fetullah Gulen, l’eminenza grigia della politica turca, sia anche in grado di spostare voti o se invece la gente stia, nonostante tutto, ancora con il primo ministro. Di fondo, rimane il dubbio se l’Hoca e la sua principale espressione politica, ossia l’attuala presidente della Repubblica Abdullah Gul, possano diventare per Washington un interlocutore più affidabile dell’attuale premier, sul quale l’amministrazione americana, all’inizio aveva fatto molto, forse troppo conto.  

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