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Obama dalle Filippine stringe l’assedio attorno a Pechino

Tra ampie misure di sicurezza e preceduto dalla firma di un importante accordo di natura militare, il presidente degli Stati Uniti è arrivato ieri nelle Filippine per l’ultima tappa del suo viaggio di otto giorni in Asia, iniziato in Giappone e proseguito poi in Corea del Sud e in Malesia. A vigilare sulla presenza dell’inquilino della Casa Bianca i corpi speciali dell’esercito e un vero e proprio stato d’assedio, con il divieto assoluto di manifestare di cui hanno fatto le spese alcune centinaia di dimostranti di sinistra e antimilitaristi che sono stati letteralmente spazzati via dalla polizia.

Ad accogliere Obama la firma di un importante Accordo esteso di cooperazione per la difesa; il segretario alla Difesa di Manila, Voltaire Gazmin, e l’ambasciatore Usa Philip Goldberg hanno siglato un trattato che concede alle truppe di Washington, navi e aerei compresi, l’accesso nelle basi militari filippine. Formalmente Manila non concede agli Stati Uniti la possibilità di aprire proprie basi militari nel suo territorio, e l’Enhanced Defence Cooperation Agreement ha una durata di ‘soli’ dieci anni. La Costituzione filippina proibisce la presenza permanente di militari stranieri sul suo territorio e per questo si è utilizzata la formula della “presenza a rotazione” per indicare la temporaneità di un ritorno dei militari Usa nel paese.

Ma si tratta comunque di un risultato molto importante per le mire statunitensi in Estremo Oriente, dopo che tra il 1991 e il 1992, sull’onda di un referendum popolare, il governo filippino aveva chiuso le numerose basi militari di Washington nell’arcipelago ex colonia statunitense.

Un nuovo fondamentale passo all’interno della strategia statunitense di militarizzazione del Pacifico e di accerchiamento della Cina che sfrutta i timori di Manila per la crescente pressione cinese su aree esterne dell’arcipelago che Pechino rivendica. Le Filippine da tempo cercano sostegno internazionale per le loro dispute territoriali con i cinesi, che riguardano in particolare le isole Spratly e lo Scarborough Shoal.

Con un’ipocrisia che abbiamo imparato a conoscere, Obama ha più volte ribadito che nessuna grande nazione dovrebbe approfittare di quelle più piccole. “Le dispute devono essere risolte pacificamente, senza intimidazioni o pressioni – aveva detto Obama in Malesia -. Tutte le nazioni devono rispettare le regole e le norme internazionali”. Un messaggio rivolto non solo a Pechino, ma anche alla più lontana Mosca riguardo alla situazione ucraina.

Obama, del resto, qualche giorno fa a Tokio ha esplicitamente evocato uno scenario di guerra, affermando che siccome che le isolette disabitate controllate dal Giappone ma rivendicate dalla Cina – le Senkaku/Diaoyu – cadono sotto il trattato bilaterale di alleanza difensiva, se la Cina dovesse attaccare Tokio le forze armate degli Stati Uniti interverranno a difesa di quelle nipponiche. E non si tratta certo solo di una diatriba simbolica. Negli ultimi due anni il fazzoletto di mare conteso è stato presidiato e pattugliato da navi della guardia costiera di Tokio e Pechino e anche i cieli sovrastanti sono continuamente attraversati dai velivoli militari dei due contendenti. A novembre poi la tensione è ulteriormente salita quando il governo cinese ha stabilito una zona di identificazione sullo spazio aereo sopra il tratto di mare conteso. Il governo nazionalista giapponese inoltre ha dato via libera al riarmo del paese, al rafforzamento militare del suo esercito e per la prima volta negli ultimi decenni ha dato il via alla realizzazione di una base radar sull’isola di Yonaguni, a 150 chilometri delle isole Senkaku/Diaoyu, contando sull’appoggio di Washington e sull’ombrello militare statunitense nell’area.

Ma al nazionalista Abe, che ha rinsaldato l’alleanza militare con Washington ma si è rifiutato di firmare un trattato di libero scambio di fondamentale importanza per gli Stati Uniti, Obama è andato a dire che deve smetterla di provocare inutilmente gli altri alleati nella regione. Ad esempio con i discorsi negazionisti sui crimini nipponici che oltre a far arrabbiare i nemici cinesi offendono e inquietano anche gli amici di Seul. L’aggressività di Abe rappresenta un problema non da poco per Washington; basti pensare che la presidente della Corea del Sud, Park Gyun Hye, da quando è stata eletta due anni fa, si rifiuta di parlare anche solo al telefono con Abe e i suoi ministri. E non è un caso che Obama ha deplorato le continue visite del premier giapponese al sacrario di Yasukuni, dove sono sepolti numerosi criminali di guerra giapponesi, ed ha definito la vicenda delle “donne di conforto” – migliaia di donne deportate e costrette a prostituirsi al fronte a beneficio delle truppe del Sol Levante – uno più crudeli crimini commessi durante il Secondo Conflitto Mondiale.

Le inimicizie tra i suoi alleati, oltre alle pretese egemoniche di Tokio, rappresentano un ostacolo non indifferente al progetto di un accordo di libero scambio che coinvolga tutti i Paesi che si affacciano sul bacino del Pacifico (Trans-Pacific Partnership, Tpp) e che darebbe un’enorme boccata d’ossigeno alle multinazionali USA in un ampio territorio dove ormai a farla da padrone sono le aziende giapponesi da un lato e quelle cinesi dall’altro. Un accordo di libero scambio costituirebbe un’opportunità senza precedenti non solo per le industrie automobilistiche e tecnologiche di Washington, ma anche per le multinazionali dell’agro-alimentare, soprattutto in Giappone, dove l’import di prodotti alimentari è sottoposto a un regime fiscale sfavorevole per garantire ai produttori locali una quota di mercato più ampia. Ma finora il nazionalista Abe ha detto no e anche la presidente sudcoreana non sembra particolarmente entusiasta dell’apertura del suo mercato interno ai prodotti e alle merci americane.

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